A Little Bighorn l'ultima carica del generale Custer

Il 25 giugno 1876 a capo di cinque squadroni del 7°, caricò gli indiani credendo fossero poche centinaia: erano 15mila e per lui e i suoi uomini fu lafine

A Little Bighorn l'ultima carica del generale Custer

Forse l'immagine più nota è quella di Errol Flynn in piedi, tra il fischiare di frecce, lance e pallottole, mentre scarica le sue Colt contro i «musi rossi». Che alla fine, ma solo perché soverchianti di numero, riesco ad avere la meglio. Campo lungo, terreno cosparso di morti, lui, ultima «giacca azzurra» ancora viva getta le pistole ormai scariche, impugna la sciabola e poi attende impavido il colpo mortale. Era il 25 giugno 1876 ma con ogni probabilità l'unica cosa vera in questa ricostruzione è che a Little Bighorn effettivamente il tenente colonnello George Armstrong Custer trovò la morte, insieme ai cinque squadroni del leggendario (da allora in poi) 7° Cavalleria. Il resto è mito.

Ma del resto Custer nel mito vi era entrato già prima di quell'epica battaglia, narrata in tanti libri, articoli e, con l'invenzione del cinema, in ben 20 pellicole girate tra il 1909 e il 1974. Anche se il più epico rimane «La storia del generale Custer» diretto da Raoul Walsh nel 1947, con Flynn interprete principale mentre Olivia de Havilland, sua partner già in una decina di altre pellicole, sarà la trepida moglie Elisabeth «Libbie». Curiosamente entrambi avevano recitato sei anni prima in un altro «biopic» su Custer, dove però il ruolo principale era toccato a un trentenne Ronald Reagan.

Una leggenda dunque (curiosamente Armstrong significa «braccio forte») che andò a stendere un velo pietoso sulla personalità di questo impetuoso discendente di emigranti tedeschi, il suo vero nome era Kuster, spietato tanto con i nemici, quanto con i suoi soldati che faceva punire per la minima mancanza con frustate e marce forzate sotto il sole. Incapace di attenersi agli ordini e alla disciplina, ma insuperabile nel guidare gli uomini in temerarie cariche, e per questo popolarissimo presso i soldati e l'opinione pubblica dopo la Guerra di Secessione. Un coraggio che fece aggio sui suoi macroscopici errori tattici e alla sua disumanità: basti pensare che 1867 era finito sotto corte marziale per una serie di mancanze: abbandono del posto di comando (era andato a trovare la moglie mentre un suo reparto era in pieno territorio «nemico»), crudeltà verso i propri soldati (aveva fatto sparare ad alcuni soldati che stavano per disertare, vietando ai medici poi di curarli), abbandono di due suoi soldati feriti nelle mani dei nativi americani, mancato intervento in difesa di una postazione attaccata. Pur riconosciuto colpevole, se l'era cavata con la sospensione di un anno dal grado e dall'attività militare. E così potè tornare a comandare il suo 7° Cavalleria.

Un reparto di circa 800 uomini, il 70 per cento dei quali stranieri: polacchi, messicani, tedeschi e persino italiani. Alla battaglia parteciparono tra gli altri, riuscendo incredibilmente a salvarsi tre patrioti sfuggiti alla repressione dopo tentativi insurrezionali a fianco di Garibaldi e Mazzini: John Martin, Charles DeRudio, al secolo Giovanni Martini e Carlo Camillo De Ridio, e Felix Vinatieri. Più Augustus L. Devoto e John Casella, Agostino Luigi Devoto e Giovanni Casella, emigrati giovanissimi con i genitori. Infatti allora, come adesso, arruolarsi nell'esercito statunitense, oltre a garantire uno stipendio, era la scorciatoia per ottenere la cittadinanza.

Alla guida di questa sorta di composita armata il 37enne George Armstrong Custer partì il 21 giugno dal fiume Yellowstone per dare la caccia agli indiani in rivolta dopo la violazione del trattato di pace firmato a Forte Laramie nel 1868. L'accordo prevedeva una sorta zona cuscinetto a cavallo tra Wyoming, Montana, Dakota del Nord e Nebraska, per separare le terre dei «pellerossa» da quelle dei «visi pallidi». Tutti vi avrebbero potuto accedere, ma nessuno insediarsi stabilmente. Ma quando scoppiò la febbre dell'oro, i pellerossa si trovarono invasi da migliaia di cercatori, i precari equilibri saltarono e fu guerra.

Armstrong, alla testa del 7°, in quel momento forte di 650 uomini, ancora una volta volle andare in cerca di gloria, evitando accuratamente di coordinarsi con le colonne del generale Alfred Terry e del colonnello John Gibbon. Del resto le informazioni dello stato maggiore indicava in 5/800 i guerrieri da affrontare. I 650 uomini del 7° erano ritenuti dunque più che sufficienti. Dopo quattro giorni di marce forzate, per staccare le altre due unità ed essere il primo a ingaggiare il nemico, Custer avvistò il campo indiano. La distanza però gli impedì di scorgere le sue reali dimensioni: 3mila tende, per un totale di 10/15mila tra Brulé, Piedi Neri, Santee, Sans-Arcs, Assiniboin, Yankton, Arapaho, Lakota (Sioux) e Cheyenne. Con almeno 3mila guerrieri, guidati da capi esperti e coraggiosi come Coda Macchiata, Cavallo Pazzo e Toro Seduto.

Non bastasse, Armstrong divise le sue forze: tre colonne, complessivamente 400 uomini, vennero mandate ad aggirare il nemico, mentre lui alla guida di cinque squadroni, 211 uomini, puntò dritto sul campo indiano. Quando scoprì la realtà, era ormai troppo tardi. Per di più l'attacco fu portato al centro del villaggio, dove per poco i cavalleggeri non furono subito chiusi in trappola. I soldati riuscirono a superare l'accampamento e, inseguiti da centinaia di indiani, a scendere da cavallo e tentare di reggere l'urto nella speranze che altre tre colonne giungessero in soccorso. Custer con ogni probabilità cadde alla prima carica e fu portato morente, o forse già morto, sul luogo dell'estrema difesa. L'assalto dei pellerossa fu micidiale e in meno di mezz'ora dei 211 uomini non ne rimase uno vivo. Anche le altre unità del 7° furono attaccate dagli indiani, ma riuscirono in qualche modo a ricongiungersi e limitare i danni a un centinaio tra morti e feriti. Tra i caduti anche Tom e Boston Custer, fratelli di George Armstrong, e James Calhoun, fratello della moglie «Libbie».

Due giorni dopo giunse colonna di Terry che fu messo al corrente del massacro. Raggiunto il luogo dello scontro, cercò di identificare e seppellire i caduti. Quella stessa sera venne individuato il cadavere di Custer completamente nudo, seduto a terra, appoggiato ai corpi di altri due soldati, un foro di pallottola all'altezza del cuore, uno alla tempia sinistra. Non era stato scalpato, usanza che tra l'altro gli indiani avevano imparato dai bianchi, perché nonostante il suo nomignolo di «Lunghi Capelli», se li era tagliati prima della spedizione. Il suo comportamento, se fosse sopravissuto, sarebbe stato da corte marziale per quanto avesse prima disatteso gli ordini e poi malamente condotto le operazioni sul campo. La morte non solo gli evitò l'onta ma lo fece entrare nella leggenda. Così il 10 ottobre del 1877 una spedizione recuperò la salma che fu poi sepolta, con tutti gli onori militari, nel cimitero dell'accademia militare di West Point dove aveva studiato da giovane cadetto. Sulla tomba fu posta una statua di bronzo che però, non essendo gradita alla signora Elizabeth «Libbie» Custer, fu in seguito rimossa. E oggi il luogo di sepoltura di Custer è contrassegnato da un semplice obelisco.

Monumento al coraggio e allo spirito di sacrificio, come visto nel film con Errol Flynn, oppure all'idiozia e all'arroganza, come ce l'ha dipinto Marco Ferreri in «L'ultima donna» con uno stralunato Marcello Matroianni nei panni di Custer. A scelta.

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