In lizza Kaurismäki, Loach e Almodóvar

Maurizio Cabona

da Cannes

Quando i Festival erano grandi non solo perché grossi, c’erano fior d’intellettuali nelle giurie. A presiedere quella di Cannes nel 1960, per esempio, era Georges Simenon: e lui faceva prevalere La dolce vita di Fellini sull’Avventura di Antonioni col voto decisivo di Henry Miller, che non aveva visto i film, e dopo aver allontanato Fabre-Lebret, direttore del Festival, latore degli «auspici» dati a Parigi dal ministro della Cultura, André Malraux.
Nomi così, oggi, non ci sono più, né nelle giurie, né sullo schermo; tanto meno nei governi. Ma è prevedibile che Wong Kar-wai sia un giorno considerato quanto lo è stato Antonioni. Il regista di Shanghai, che non ha mai vinto la Palma d’oro ma c’è andato vicino, troneggia sulla giuria di quest’anno fra altri quattro registi: il francese Patrice Leconte, il palestinese Elie Suleiman, l’argentina Lucrecia Martel, l’inglese Tim Roth, che è anche attore; poi ci sono le attrici care a registi: l’inglese Helena Bonham-Carter in (Tim) Burton; la cinese Zhang Ziyi, compagna di Zhang Yimou; l’italiana Monica Bellucci è invece cara a un attore francese, Vincent Cassel. Quanto all’attore americano Samuel L. Jackson, se ne ignorano le relazioni sentimentali.
Di un’accolita simile, omogenea per professioni ma eterogenea per propensioni, è arduo intuire le possibili scelte nel verdetto di stasera.
Per esempio, la vocazione alla fotografia raffinata e alle storie anche sordide (Happy Together) rendono possibile una simpatia di Wong Kar-wai per L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino, formidabile film assistito dalla mirabile fotografia di Luca Bigazzi; ma la contiguità estetica potrebbe anche suscitare fastidio. E poi oltre metà della giuria è composta da altri registi, restii a lasciarsi dirigere gratis da un collega posto al di sopra di sé. Dovrebbero essere più docili gli attori, ma ognuno di loro ha la sua storia e anche la sua fama, che potrebbe indurli a fare la stessa riflessione di cui sopra.
Se i giurati leggessero i quotidiani italiani e francesi adepti del politicamente corretto, avrebbero già scelto almeno un premio: quello per Nanni Moretti. Ma è improbabile che gente seria perda così il suo tempo, sempre che conosca le lingue di quei giornali. Chi non fa tifo ideologico, dimenticando che la previsione - guerra civile - del Caimano s’è rivelata per ora sbagliata, si dà alla previsione compensatoria: ci sono tre registi - Pedro Almodóvar, Aki Kaurismäki e Ken Loach - che hanno vinto qualcosa a Cannes, ma non la palma d’oro; dunque questa potrebbe essere la volta buona per uno di loro. E si medita anche sui destini personali: Loach, settantenne, potrebbe non avere un’altra occasione; Kaurismäki, cinquantenne ma alcolista, idem; Almodóvar - il meno bisognoso di un premio, visto il suo successo - invece darebbe smalto popolare a un Festival che l’anno scorso ha premiato per la seconda volta i Dardenne con L’enfant, non proprio l’optimum per il botteghino.
Alchimie che contrastano con le visioni romantiche dei Festival nutrite dai cinefili. Ma la gente adulta, quella che sbaglia da professionisti, sa che un film può essere arte, ma il cinema è industria. Un grande Festival - «il maggiore del mondo», ama ricordare il selezionatore di Cannes, Thierry Frémaux - è un anello della distribuzione, quello per i prodotti haut de gamme, in questo caso non sempre i più cari, ma i più ardui da piazzare.
Così ai giornalisti resta il mestiere dell’aruspice: cogliere i segni, dedurre dai nomi dei giurati i nomi dei premiati, naturalmente prima che lo siano. È un mestiere duro, ma qualcuno deve pur farlo.

E pazienza se stasera sarà ancora un turco, Bilge Ceylan, andato vicino alla palma, a coglierla con Climi alla faccia di più titolati aspiranti. Del resto Cannes ha una specialità. La conoscono Moretti, von Trier e Polanski, per restare alle ultime edizioni: si premia il regista giusto per il film sbagliato.

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