da Roma
Brutta storia, tutta interna alla sinistra, quella del festival di Torino. Lo sa bene Carlo Lizzani, 84 anni, regista, storico di cinema, già direttore della Mostra di Venezia nonché ex presidente del Comitato scientifico del Museo del cinema torinese.
Ha letto Gramellini su La Stampa? «Tutti i protagonisti della penosa vicenda sono ex comunisti che dell'antica fede hanno conservato lo spirito di clan e una visione micragnosa e autolesionista dell'esistenza». Concorda?
«Non conosco la vicenda nei dettagli. Mi riesce difficile prendere partito. Però vedo reazioni eccessive. D'istinto inviterei i due fronti a far pace. Ma temo che non sarà facile. Noi di sinistra spesso abbiamo ottime idee nel campo dell'organizzazione culturale. Poi però ci dividiamo e ci si ritrova nemici, l'uno contro l'altro armato».
Mandi un messaggio ai contendenti, se le va.
«Ci provo. A Nanni dico: ti capisco, ma ripensaci. A Rondolino, che conosco e stimo: cerca di collaborare, non isolarti. A Barbera: non dimetterti dalla direzione del Museo. A Chiamparino: hai ragione ad essere duro, ma non attizzare le polveri».
Teme l'effetto Tafazzi?
«Un po' sì. Prenda Moretti. Non giudico il comportamento, ma è noto il suo carattere non facile, schivo. È uomo di battaglia, non si sottrae alle sfide, però gli piace stare tra amici. Magari l'idea di ritrovarsi dentro un conflitto locale, tra rancori personali e contrasti procedurali, l'avrà indotto a ripensarci. Eppure, per esperienza personale, gli suggerisco: Avanti, coraggio. Perché l'identità del festival di Torino si sposa bene con la sua idea di cinema».
Insomma, secondo lei doveva resistere. Tra l'altro aveva tutti dalla sua parte, a parte Rondolino, il manifesto e i due ex direttori.
«Già. Anch'io, quando fui nominato direttore a Venezia, nel 1979, dovetti fare i conti con grovigli, diffidenze, nostalgie, risentimenti. C'è carattere e carattere... A volte basta un'ombra per cambiare idea».
Moretti parla appunto di ombra che non lo farebbe «lavorare con gioia ed entusiasmo».
«Non si può piacere a tutti, proprio a tutti. Nanni non è uomo da farsi strumento dei politici per soffocare l'indipendenza del festival. Se qualcuno lo scrive, amen. Doveva andare avanti lo stesso. A meno che non temesse, in una logica di conflitto sotterraneo, di diventare il braccio armato di qualcuno. Allora era meglio dirlo subito».
Forse pensava che il carisma del suo nome avrebbe messo a tacere le chiacchiere e «i rancori personali».
«Guardi, io non conosco la natura di questi rancori. Però so che grandi conflitti sono possibili. Tra storici dell'arte, critici di cinema, filosofi. Pensi solo allo scontro tra Croce e Gentile. A volte questi conflitti si trasformano in forme di parricidio. È nella logica dei circoli intellettuali».
Rondolino non ci sta a farsi «uccidere» simbolicamente da Barbera e Della Casa. E anzi si erge a difensore del festival contro «l'ingerenza della politica».
«Bah! Sappiamo tutti che la cultura, oggi in Italia, ha un problema di risorse. Ingenuo pensare che la politica non debba e non possa partecipare al dibattito. Dico a Rondolino che non c'è niente di male a confrontarsi con la logica e le richieste degli amministratori. Il mio arrivo a Venezia fu il frutto di un accordo tra la Dc e il Pci, dopo la tempesta della contestazione e il commissariamento. Nondimeno, mi sentii libero di rifare il festival come volevo».
E a Torino come s'è trovato?
«Bene. Sono rimasto un anno a lavorare per il Museo. Ebbi l'impressione di essere gradito all'intellighenzia cinematografica torinese. Ma il festival è un'altra cosa. Rondolino lo considera una propria creatura. E questo può suscitare gelosie».
Bellocchio consiglia ai registi ancora in attività di pensarci bene prima di dirigere un festival.
«In effetti, un regista direttore di festival è una trovata tutta italiana. Con me ha funzionato, con Pontecorvo pure. Però è vero: all'estero i festival sono diretti da operatori culturali di provata esperienza, che fanno solo quel mestiere, per tutto l'anno. Da noi, invece, piace il nome squillante, si pensa che un cineasta possa portare qualcosa in più sul piano della confezione. D'altro canto, Moretti è un inventore di iniziative, un imprenditore di se stesso. Il matrimonio con Torino sembrava perfetto. Forse, ripeto, il riflesso è psicologico: non si è sentito tranquillo, coperto, protetto, ha temuto di estenuarsi nei rapporti con la politica. Ha visto profilarsi un lavoro doppio del previsto».
Pare che a Roma e Venezia abbiano stappato lo champagne dopo il gran rifiuto di Moretti.
«Se l'hanno fatto, è una sciocchezza. Ma continuo a pensare che tre festival internazionali in tre mesi siano troppi. Uno spreco, un'esagerazione».
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