Loi e Benvenuti, a suon di pugni verso la modernità

Non c’è requiem per i miti. Impossibile dimenticare. Impossibile dimenticare quella mattina di 50 anni fa. Milano si svegliò e i giornali strillavano: Duilio Loi campione del mondo. Era il 2 settembre. E Loi il terzo campione del mondo dell’Italia pugilistica. Si prese la cintura dei welters juniors. Fino allora stavamo aggrappati al ricordo di Primo Carnera (massimi nel 1933) e Mario D’Agata (campione dei gallo nel 1956). Ed invece la notte del 1° settembre, luci a San Siro: quasi ottantamila persone nel gran catino, 61900 paganti (oggi farebbero gola alle partite di serie B e pure di serie A), un incasso da 120 milioni di lire, fremiti ed emozioni, una folla calcistica per due ometti, là in mezzo sul ring. Duilio Loi era il re dei nasi schiacciati. Carlos Ortiz l’indomito avversario, un tipo difficile.
Quella notte Loi ci disse qualcosa che capimmo solo più tardi: nello sport e non solo. Non è un caso se ogni tanto in Italia parliamo, e raccontiamo, dei mitici anni Sessanta. Cominciarono così: battezzando l’ultima culla della nostra boxe e tanto d’altro, a partire dai successi di Inter e Milan in coppa dei Campioni.
Sul ring di San Siro, Loi fece impazzire Ortiz, che l’aveva battuto tre mesi prima al Cow Palace di San Francisco. E fors’anche l’arbitro. Fu un match difficile, contrastato, mai chiaro nel verdetto. L’arbitro, e giudice unico, era un simpatico spagnolo, Andrè Esparaguera, che teneva un bar a Marsiglia. Loi divise i critici: vittoria o pareggio? A San Francisco i giudici decisero 2-1 per il portoricano. Qui Ortiz si consolò con una bella borsa.
Cambiamo scena, 500 km di distanza: a Roma, Giovanni «Nino» Benvenuti si stava avviando a diventare la miglior rappresentazione dei nostri campioni-immagine. Nino come Berruti. Ma volete mettere la plastica bellezza del pugile disegnato dalla natura?
Duilio Loi era un meraviglioso robot acchiappa danari, fisicamente tarchiato, aveva la testa dura regalata da quel pizzico di sangue sardo che gli apparteneva, una grande dignità intrisa nella spavalderia del campione. Fu l’idolo che identificò l’Italia del boom economico. Loi e la Lambretta erano tutt’uno, non solo nello spot pubblicitario. Duilio conquistò il titolo a 32 anni, era la nostra certezza pugilistica, l’uomo che sembrava strizzarti l’occhiolino mentre evitava colpi e faceva stancare gli avversari. Poi, ci potevi scommettere, gli ultimi 20 secondi erano un tripudio, uno sventolare di colpi. Come le ultime due riprese. Convincevano i giudici.
In quella mattina ci ritrovammo con il vecchio campione e lo squillare di tromba della nouvelle vague pugilistica che, appunto a Roma, avanzava verso il podio olimpico. Benvenuti pareva un predestinato, vinse tutti gli incontri e tutte le riprese. I nomi ricordano un’epopea: Franco Musso e Primo Zamparini, Sandro Lopopolo e Carmelo Bossi, Giulio Saraudi e Francesco De Piccoli. Entrarono tutti in semifinale, quindi sicuri di una medaglia, perchè nella boxe il bronzo viene assegnato ai due semifinalisti perdenti.
Fateci caso: Loi combatte per il suo mondiale negli stessi giorni in cui va in scena l’Olimpiade italiana. San Siro accoglie ottantamila persone, i Giochi sono un trionfo di folla. Oggi non sarebbe nemmeno pensabile. La Rai teneva banco in solitudine, ma un’Italia forse meno viziata dagli eccessi sapeva gustarsi il bello dello sport. I nostri pugili raccolsero tre ori (Benvenuti, Musso, De Piccoli), tre argenti e un bronzo (Saraudi che combatteva nella categoria di Cassius Clay). Benvenuti venne preferito a Clay dalla giuria che assegnava il premio al miglior pugile del torneo. Roma conobbe l’arte pura dei nostri boxeur: Benvenuti era il classico per eccellenza, ma la scherma di Lopopolo e Bossi era da maestri. De Piccoli un mancino che ti faceva veder le stelle, come intuì il sudafricano Daniel Bekker che finì steso nella battaglia per la medaglia d’oro: sinistri doppiati dal destro, bastò poco meno di una ripresa.
I nostri pugili si prepararono in monastico ritiro nell’Ateneo dominicano di Orvieto, guidati da Arturo Poggi e Natalino Rea, ragazzi che cercavano una strada. Musso era un fattorino postale e, dopo la medaglia d’oro, scalò le gerarchie fin a divenire Direttore dell’ufficio postale del suo paese. De Piccoli chiese alla vita di divenir qualcuno e ne fu accontentato. Benvenuti ancor oggi è un’icona, immagine dell’eleganza. Ma in quei giorni quanto soffrì per il peso! Arrivò alle Olimpiadi con 155 vittorie nel carnet e due titoli europei. I tecnici lo costrinsero a scendere dai 71 kg ai 67 dei pesi welter. Allora i pugili facevano diete molto empiriche: tanto sudare, allenamento con maglioni pure d’estate, poco bere, niente pane e pasta, carne soltanto succhiata, verdure e frutta. Fu questo il rito che portò Benvenuti all’oro conquistato contro Yuri Radonyak, un montanaro ucraino. Tanti anni dopo (1988) lo stesso rito toccò a Giovanni Parisi. E stesso risultato,ma nei piuma.
Bossi e Lopopolo conquistarono nel ring, anche da professionisti, quelle soddisfazioni che non avrebbero trovato nella vita. Quell’Italia pugilistica ci traghettò dai tempi pionieristici di cui Loi fu l’ultimo, e più moderno, interprete ad un’altra che raccontò uno scintillio di titoli europei e mondiali, campioni che ci fecero divertire ed emozionare.

Il nucleo dei ragazzi dell’Olimpiade, eppoi Mazzinghi e Burruni, per trascinarci fin all’epoca di Arcari e Rocky Mattioli, Oliva, Parisi e pochi altri. No, non ci potrà mai essere un requiem per quei magnifici degli anni Sessanta. Tutto cominciò in una notte di settembre....

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