«Ma quale Padania! Ma quale Lega! Sono io, il presidente della Regione Siciliana, che dice a voi del Nord: basta così, la secessione la facciamo noi. La Trinacria se ne va, è prontissima ad arrangiarsi da sola». Da un medico nato a Catania ma che di cognome fa Lombardo forse prima o poi bisognava aspettarselo.
Quando un mese fa il mio editore, Marsilio, mi propose per la presentazione di Cuor di veneto una specie di sfida all’O.K. Corral con Terroni , il best seller di Pino Aprile, non avrei mai immaginato, accettandola, di mettere seriamente in pericolo l’Unità d’Italia proprio allavigilia dei festeggiamenti per i suoi 150 anni. E questo nonostante fossimo stati invitati a nominare due «padrini» che amano parlar chiaro: Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, per i terroni; il sindaco della mia città, Flavio Tosi, per i polentoni. Certo, l’ora non deponeva a favore, le 17, e neppure l’ubicazione, Verona, per cui aprendo le ostilità m’era venuto facile ironizzare su sangue e Arena.
E precisamente questo, il sangue, s’aspettava di veder scorrere «a las cinco de la tarde » il folto pubblico. Invece ne è nata un’inaspettata Santa Alleanza fra Lombardo e Tosi, che si sono trovati d’accordo praticamente su tutto, a cominciare dal federalismo. Ma senza escludere ( anzi)l’opzione secessionistica. Col primo che ricordava il suo viaggio di nozze a Venezia, magnificava i libri di Alvise Zorzi sulla Serenissima, proponeva al sindaco leghista il «partito degli onesti» ed elevava peana «a Roberto Maroni,il ministro dell’Interno che contro i mafiosi sta facendo benissimo». E col secondo che riscriveva la storia del Regno delle Due Sicilie «depredato dai Savoia, tanto da far ipotizzare che il principale obiettivo dell’Unità d’Italia stia stato quello di fregare al Sud le ricchezze e soprattutto il Banco di Napoli, il più florido d’Europa », riconosceva al leader del Movimento per le autonomie il merito d’aver finalmente messo sotto controllo le spese pazze della sanità siciliana e infine dichiarava, infischiandosene delle logiche di schieramento, che «negli ultimi sette anni il centrodestra ha governato Palermo da cani e Catania forse peggio».
Pino Aprile ce l’ha messa tutta per tirare dalla sua parte la platea, brandendo il meglio dell’armamentario storico-ideologico che Terroni squaderna fin dalla pagina 8 : «Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sullecolline e colonne di decine di migliaia di profughi in marcia. Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia ( non si sa, perché li squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di Stalin. Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni “ una landa desolata”,fra Patagonia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti. E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera ».
Sennonché il cahier de doléances dei veneti, terroni del Nord perseguitati da mille pregiudizi, è risultato speculare a quello di Pino Aprile: la più longeva repubblica mai apparsa sulla faccia della Terra, quella durata 1100 anni e che già nel Duecento possedeva la metà dell’oro di tutta la cristianità, umiliata e saccheggiata da Napoleone; 40 milioni di lire oro rubate dai forzieri della Serenissima, 1.033 miliardi di euro di oggi, pari al 56%dell’attuale debito pubblico italiano; i superstiti veneziani, che prima vantavano un tenore di vita quattro volte superiore alla media europea, costretti a vendere per fame le figlie minorenni a Lord Byron e a Jean Jacques Rousseau; un plebiscito-truffa, imbastito nel giro d’una decina di giorni dai Savoia, che il 20 ottobre 1866 consentì l’annessione forzata del Veneto all’Italia con 641.758 sì e appena 69 no e con quasi 2 milioni di cittadini che nemmeno votarono, anche perché le schede per il sì erano bianche e quelle per il no nere.
La corrispondenza d’amorosi sensi fra terroni e polentoni è continuata durante la cena al ristorante 12 Apostoli, che ha visto Lombardo uniformarsi alla sacralità del luogo con un segno di croce al momento di portare alla bocca la prima cucchiaiata di pasta e fasoi , tradizione quasi scomparsa (il segno di croce, non la pasta e fagioli) fra le genti venete un tempo devotissime, e il patron Giorgio Gioco, 86 anni, recitargli a memoria in un impeccabile siciliano la più famosa poesia di Ignazio Buttitta: «Un populu / diventa poviru e servu / quannu ci arrubbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri». Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua ricevuta dai padri: è perso per sempre. Lì è nata l’intervista che segue.
La Sicilia che si separa dall’Italia mentre il governo Berlusconi vuole costruirvi il ponte sullo Stretto. Cos’è? Una provocazione?
«No, dico sul serio. In fin dei conti già nel 1943 la Sicilia vagheggiava di diventare una nazione autonoma e federata degli Stati Uniti d’America. Chiederò al ministro per il Federalismo, Umberto Bossi, che questa secessione la faccia veramente una volta per tutte. Ma in Sicilia. Ci mandi pure al diavolo. Sono sicuro che, da indipendenti, ce la caveremo meglio che restando sotto la tutela di Roma. Vogliono invece costituire le macroregioni o i cantoni, come li chiamava il professor Gianfranco Miglio, ideologo della Lega? Affare fatto. A me sta benissimo ugualmente: Padania, Centro, Sud. A patto che siano abolite tutte le sperequazioni. Se un milanese può raggiungere Roma col pendolino in tre ore, non vedo perché io per recarmi in treno da Catania a Palermo debba impiegarci 5 ore a percorrere appena 180 chilometri ».
Occhio, che poi si ritrova Nichi Vendola presidente del Sud. «Questo Vendola a me non piace per nulla. Un affabulatore che maschera con gli accenti lirici la debolezza delle sue proposte demagogiche. Da moderato, preferisco di gran lunga un Massimo D’Alema, o un Pier Luigi Bersani, o un Walter Veltroni».
I quattrini per l’autonomia dove andate a prenderli?
«Le sole entrate fiscali derivanti dalla raffinazione del petrolio negli impianti di Gela, Milazzo, Augusta, Ragusa, Priolo e Melilli ci bastano e avanzano per essere autosufficienti insieme con altre regioni. Sa quanto incassa di accise lo Stato italiano sulla nostra pelle? Dieci miliardi di euro. Ci lascino quello che è dei siciliani e noi siamo a posto».
Il federalismo non le basta più?
«Fui il primo presidente di una regione del Sud a rompere il fronte del “no al federalismo”,quando ancora la Campania, la Calabria e la Sardegna erano governate dal centrosinistra. Dissi di sì subito. Perché, vede, senza una pistola puntata alla tempia che ci costringa a essere virtuosi, noi i conti della sanità, del personale, dello smaltimento dei rifiuti non li metteremo mai a posto. Però io temo che il federalismo non si realizzerà affatto com’è stato pensato. E allora meglio che ciascuno vada per la propria strada. Si spaccherà il mio movimento su questa scelta? Pazienza. Scapperanno coloro che trovano più conveniente tirare a campare, lasciare che le cose restino come sono».
Secondo me lei non dura.
«Poco male. Sto per compiere 60 anni. Potevo governare la Sicilia da un attico di Roma. Oppure fare il ministro, come mi era stato offerto. Ho preso sul serio questo lavoro. Per me essere il presidente della mia Regione rappresenta il top. Entrare nel governo nazionale sarebbe stata una retrocessione. Non ho davvero altro da chiedere alla politica ».
Riceve molte minacce
di morte?
«Tutti i giorni. Lettere minatorie con proiettili, messaggi trasversali, telefonate. Non ho paura. Non so quanto potrà durare questa esperienza, ma non posso accettare compromessi. La maggior parte degli assessori della Giunta tecnica che ho varato è indifferente al bipolarismo. Forse il più a sinistra è il prefetto Giosuè Marino, che era stato nominato commissario antiracket dal ministro Maroni. È un governo formato solo da esperti che cominciano a farmi capire come stanno le cose in materia finanziaria.
Il primo macigno che mi sono trovato sul tavolo è stato il piano di rientro del sistema sanitario. Potevo traccheggiare, invocare sconti, piangere il morto affinché Roma chiudesse un occhio. Ho preferito invece affidarmi a un assessore, Massimo Russo, ex magistrato antimafia, che non credo abbia votato per me, anzi non so neppure se sia andato a votare. Le aziende sanitarie sono scese da 29 a 17. Avevamo 1.700 strutture sanitarie private, fra cliniche, laboratori di analisi, studi radiologici. Uno scandalo. È ovvio che se una casa di cura prima costava al sistema sanitario 45 milioni di euro l’anno e oggi ne costa 12-13, questo significa ridurre i margini di profitto per il racket. Abbiamo risparmiato 400 milioni di euro facendo una gara unica per l’approvvigionamento dei medicinali nelle farmacie ospedaliere e mettendo ordine nelle assicurazioni, che costavano un’enormità. Ho una manifestazione al giorno sotto le mie finestre perché intendo ridimensionare gli ospedali di Avola e Noto, con 250 posti letto ciascuno e servizi raddoppiati. Ebbene, presto avranno una sola cardiologia, una sola ostetricia, un solo pronto soccorso».
Confortante. Ma la Regione Siciliana ha un dipendente ogni 348 abitanti, contro un dipendente ogni 1.671 della Regione Veneto.
«Debbo correggerla. È molto peggio. Non abbiamo un dipendente ogni 348 abitanti: ne abbiamo tre».
In Veneto sono 2.811, in Sicilia 14.395: il 412% in più. «Anche qui debbo correggerla. Dipendenti ne abbiamo circa 100.000, compresi 28.000 forestali, 22.500 precari pagati da noi nei Comuni e 10.000 formatori. Ci vorranno 10- 15 anni prima che vadano in pensione. Non li posso licenziare».
Non parliamo dei dirigenti: 225 nella mia regione, 2.150 nella sua. L’855% in più.
«Ho bloccato tutte le assunzioni fin dal maggio 2008».
E i forestali? Uno ogni 7.000 ettari in Friuli, uno ogni 12 in Sicilia.
«Guardi, è meglio che non tocchi questo tasto. Di recente sono andato a trovare a Roma l’ex governatore della sua regione, Giancarlo Galan, oggi ministro dell’Agricoltura. Abbiamo fatto insieme quattro conti. Il suo dicastero ha un ente chiamato Agea, Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che ha costituito una società a maggioranza pubblica e minoranza privata per organizzare i controlli sul territorio. I quali controlli sono poi demandati a un’altra società, sempre a maggioranza pubblica e minoranza privata, che a sua volta li delega agli agrotecnici, nel nostro caso all’Ordine degli agronomi di Palermo. Ebbene, allo Stato questi controlli costano 100 però gli agronomi percepiscono solo 25. Il grosso, 75, finisce nelle tasche dei privati che, senza far nulla, detengono il 49% delle società intermedie. A proposito dei guasti del centralismo...».
Sì, però avete oltre un terzo di tutti i funzionari nazionali, si rende conto? Mediamente in Sicilia c’è un capo, strapagato, ogni 7 dipendenti. Non è una pianta organica: è una selva amazzonica.
«Ringrazi lo Stato unitario. Nel Sud è successo semplicemente questo: un patto scellerato fra classi dirigenti locali e partiti romani, un’alleanza fondata sull’assistenzialismo, sul clientelismo, sulle assunzioni facili. Qualcuno delle classi dirigenti del Sud è mai stato cacciato per aver consentito queste abnormità? Nessuno. C’è da sempre piena sintonia fra Palermo e Roma. E allora di che ci accusate? Per aver fatto questi discorsi nell’Udc sono stato costretto ad andarmene e a fondare un mio movimento. Alla struttura centralistica dello Stato fa molto comodo che la mia azienda agricola produca arance a 20 centesimi e che quattro anni su cinque sia costretto a venderle a 15, tanto che se non ci fossero le indennità avrei già dovuto chiuderla; fa molto comodo che le classi dirigenti meridionali spianino la strada alla grande distribuzione organizzata che importa gli agrumi dalla Tunisia e i carciofi dall’Egitto. Ma se questa colonizzazione finisce una volta per tutte, se lo Stato, invece di ripianarci i debiti, se ne va e ci lascia soli, ciascuno di noi dovrà mettersi a fare il proprio compito, visto che c’è di mezzo il portafoglio di ciascuno. E chi non lo fa sarà preso a calci nel sedere».
Lei non si limita a rivedere i conti: riscrive anche la storia del Risorgimento, come i leghisti.
«L’Unità d’Italia è stata un affare o no per la Sicilia e per il Sud in generale? Prima dell’avvento dello Stato unitario da noi non esisteva l’emigrazione. Quindi no, l’unificazione non è stata un affare né per i veneti né per i siciliani né per nessuno. Certo, voi siete molto bravi, avete raggiunto la ricchezza grazie al sudore della fronte,coltivate l’etica del lavoro, tenete sempre ben presente la passata povertà, tanto che Luciano Benetton, come ho letto nel suo libro, le ha confidato che ancor oggi sceglie la pasta alla crema più grossa invece di quella più buona, perché è rimasto fermo ai tempi in cui badava a riempirsi la pancia. Noi siciliani ci sentiamo il sale della terra, ma in effetti siamo un po’ fessacchiotti. Queste benedette diversità devono restare. Finiamola di dipendere gli uni dagli altri. Mettiamoci invece a sudare tutti, questo sì».
Insomma, fra qualche mese non la vedremo con lo scapolare tricolore a celebrare il centocinquantesimo dell’Unità.
«A Grammichele,la cittadina d’origine della mia famiglia, vicino a Caltagirone,c’è una strada intitolata al generale Enrico Cialdini. Per oltre un secolo abbiamo celebrato i genocidi di questo ufficiale savoiardo, poi senatore del Regno d’Italia, responsabile dei massacri di Pontelandolfo e Casalduni compiuti nel 1861. I “liberatori” non lasciarono che pietra su pietra, come ordinato da Cialdini: fucilarono uomini, donne, vecchi, preti e bambini. La sedicenne Concettina Biondi fu legata a un palo da dieci bersaglieri che la violentarono a turno sotto gli occhi del padre contadino. Dopo un’ora svenne.I1 soldato piemontese che la stava stuprando, indispettito, la uccise. Il papà, che cercava di liberarsi per soccorrere la figlia, fu ammazzato anche lui dai bersaglieri. È questo che dovrei celebrare? Quando sarà riscritta la storia d’Italia, si vedrà che una mano al successo della mafia l’hanno data i garibaldini.
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