La loro vita per un cavallo

La loro vita per un cavallo

«Non basta un cavallo per fare un cavaliere». Con queste parole Marco Meschini conclude le sue Battaglie medievali, il racconto di sette giornate che hanno fatto la storia militare del medioevo e attraverso le quali viene presentato il fenomeno della guerra nei secoli dall’XI al XIII. Quando la guerra era combattuta soprattutto dalla cavalleria, composta da uomini che spendevano la vita nell’esercizio delle armi e che nel nostro continente detenevano una sorta di monopolio del mestiere, che esercitavano praticamente senza interruzione tutta la vita. Nei tornei quando non si poteva fare altrimenti, ma più spesso contro nemici dichiarati, in caccia di bottino o in difesa dei propri averi. Ma non era questione solo di armi e di cavalli: a innervare quel modo di vivere stavano un’etica e una morale, spesso sostenuti da una fede semplice ma molto solida.
Possiamo considerare Civitate, Hastings, Ascalona, Hattin, Arsuf, Muret e Bouvines i passaggi salienti, decisivi della guerra medievale? Meschini stesso nella sua introduzione indica un possibile percorso alternativo, che va da Poitiers a Manzikert, passa per Las Navas de Tolosa arriva a Crécy e Azincourt. Una via diversa, meno franca, più germanica e ispanica, ma parallela a quella effettivamente scelta per analizzare la battaglia in un’epoca che ne fu quasi priva, anche se le guerre non mancavano. Neppure le poche battaglie che si combattevano erano grandi, anche se a volte il loro esito incideva in profondità sul corso degli eventi successivi.
Ad Hastings erano in meno di 10mila i sassoni a difendere con re Aroldo l’Inghilterra da Guglielmo il Conquistatore, che non disponeva di un esercito numericamente superiore e che fu l’ultimo a superare la Manica provenendo dal continente. Filippo Augusto fondò a Bouvines la Francia moderna sconfiggendo l’imperatore guelfo Ottone che disponeva di circa 13mila uomini, dei quali solo 3mila montati, e lo fece trovandosi sicuramente in inferiorità numerica. In effetti ci riuscì per un pelo: fu l’acciaio della sua armatura a salvarlo quando i fanti tedeschi sfondarono il centro francese, lo raggiunsero, abbatterono il suo cavallo e tentarono di finirlo a colpi di lancia. Ma la corazza resistette, il re si salvò, sfuggì al momento critico e la cavalleria pesante francese seppe capovolgere il segno della giornata.
Piccole battaglie, perché i re che si combattevano non disponevano dei mezzi di Stati grandi, potenti e dotati di efficienti burocrazie. Creare un esercito era una questione difficile e costosa, che prosciugava il tesoro di chi decideva di metterlo in campo. La logistica era in embrione, l’autonomia degli eserciti medievali si misurava in giorni, settimane al massimo. Ad Hattin i cristiani furono massacrati dai saraceni anche perché avevano iniziato l’attraversamento del deserto senza portarsi al seguito riserve d’acqua sufficienti: a Saladino bastò bloccare gli accessi ai pozzi per avere la vittoria in pugno. Altre volte si dovette combattere perché la penuria di viveri avrebbe altrimenti costretto alla ritirata immediata uno degli eserciti. Tutti e due i contendenti pensavano di avere la vittoria in pugno, o comunque che difficilmente si sarebbe presentata l’occasione di tentare la sorte con tale dispiego di mezzi.
La battaglia medievale non era solo violenza, nessuna battaglia del resto lo è. Era anche l’espressione di una cultura, di un modo di pensare e anche di credere. Meschini affronta la questione. Molto bella la pagina nella quale racconta delle preghiere e delle processioni organizzate da Guglielmo il Conquistatore per ottenere il vento a favore. Senza sapere che proprio le condizioni meteorologiche contrarie stavano organizzando il corso degli eventi nel modo a lui più favorevole. Il segnale della partenza arrivò nel corso di una processione «quando il gallo di ferro in cima alla chiesa non dette il gemito, girò su se stesso richiamando gli occhi di tutti: il vento era cambiato».
La spedizione partì e giunse in Inghilterra nel momento più favorevole per sconfiggere il re sassone appena eletto. Guglielmo, che combatteva recando al proprio fianco il vexillum sancti Petri che gli era stato concesso da Papa Alessandro II e legate al collo le sacre reliquie sulle quali il suo rivale Aroldo aveva giurato un giorno di accettarlo come proprio re, riconobbe l’aiuto divino ricevuto nel corso della campagna e rispettò meticolosamente tutte le promesse fatte quando aveva pregato per ottenerlo. Fra l’altro fece erigere la Battle Abbey sul luogo dove avvenne lo scontro.
Ma raccontare le battaglie di un’epoca storica ha ancora un senso o significa soltanto fornire al lettore qualche curiosità marginale? Nelle sue conclusioni Meschini affronta la questione e fornisce una risposta in buona parte condivisibile: la storia, l’analisi e il racconto, degli avvenimenti salienti di un periodo, come tali riconosciuti dai contemporanei e da quanti li hanno seguiti, ha un valore pari allo studio dei fenomeni di lungo periodo, delle costanti, delle trasformazioni che si manifestano nel corso dei secoli, a volte neppure percepite dalle generazioni che le vivono.

Si tratta di studi e ricerche non antitetiche, ma complementari, che devono muoversi insieme in un continuo interscambio di problemi e di risultati.
Avrebbe senso una storia del Novecento che non affrontasse le Guerre Mondiali?

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