Lou Reed, mille vite in una storia

Finiti i tempi delle trasgressioni ora il cantante è un altro uomo

Antonio Lodetti

Tanti tanti anni fa diceva: «La mia vita e la mia carriera sono una continua partita a scacchi contro la morte»; ora, da qualche tempo ormai, quella partita l’ha vinta.
Lou Reed, l’uomo che fece delle droghe, della trasgressione e del trasformismo le sue bandiere oggi è tranquillo; sarà l’età (ha superato i 65 anche se qualche biografia lo ringiovanisce di un paio d’anni), sarà la famiglia e la vicinanza di Laurie Anderson, sarà che l’artista, dopo aver smontato e rimontato l’America sottolineandone realtà ed orrori, trasformandola secondo i suoi stati d’animo in inferno e paradiso, ora ha bisogno di normalità.
Ha abbandonato la vita sulla corsia di sorpasso con le droghe pesanti (era arrivato addirittura a farsi con sciroppo per la tosse tagliato con la codeina)e la vita di eccessi che contraddistingue l’artista maledetto. Oggi i suoi vizi sono il baseball e le moto di grossa cilindrata ma soprattutto, ora e sempre, il rock.
Perché Lou Reed non perde l’entusiasmo e la passione per i suoni ruvidi ed energici, spruzzati di vetriolo, di sperimentazione e di punk, che hanno segnato e continuano a segnare la sua storia. Si sarà anche dato una calmata ma è pur sempre un animale da palcoscenico. Il 2003 l’ha passato quasi tutto in tournée in giro per il mondo e l’anno successivo ha pubblicato l’energetico album Animal Serenade registrato dal vivo al Wilthern Theater di Los Angeles, senza contare i dvd dell’anno scorso, tratti da concerti, Spanish Fly: Live In Spain e Live At Montreux 2000. Insomma il concerto, l’esibizione sono nel suo Dna.
Non a caso torna in Italia con il Winter Tour che lunedì approda al Teatro Nazionale (Reed ha rinviato per indisposizione le prime due date di rodaggio newyorchesi del tour, ma da noi promette di arrivare più in forma che mai).
«Il mio dio è il rock - questo il suo motto - un potere oscuro che ti può cambiare la vita». Quindi il suo rock promette la stessa energia di un tempo, perché Lou è sempre uguale e sempre diverso, si mette in gioco in continuazione.
Nella sua intensa storia sono racchiuse mille vite. Il primo fotogramma lo vede sul palco, strafatto e nascosto dagli occhiali da sole, insieme a John Cale. Lou con la chitarra a tracolla, l’altro maneggia il violoncello come una clava. Al loro fianco l’inquietante Sterling Morrison e l’androgina batterista Maureen Tucker.
Siamo in un liceo del New jersey nel 1963; è il primo concerto dei Velvet Undergorund che scaricano su un attonito pubblico di studentelli, genitori ed insegnanti le ingiurie cacofoniche di Venus In Furs e Heroin. È lo scandalo, è il primo vero concerto di Lou Reed. I suoi primi estimatori sono Andy Warhol e il regista underground Paul Morrissey, che lo nominano custode della follia e del vizio nel rock.
L’uomo che canta la bugia per dire la verità inizia così la sua splendida e spiazzante carriera punteggiata da dischi estremamente diversi tra loro eppure legati da un invisibile filo, dischi che riflettono l’anima ribelle newyorchese (Rock and Roll Animal e il pop che tende al glamour (Transformer), la pura schizofrenia sonora (Metal Machine Music) e la sofferta poetica del dolore (Songs For Drella) fino ad arrivare al rock and roll di Ecstasy e alla poesia di The Raven.


Nel suo vasto repertorio ci sono decine di brani entrati nell’immaginario collettivo - da Heroin a Take a Walk On the Wild Side, da Sweet Jane a Berlin e I’m Waiting for the Man - quei brani che i suoi fan non si stancano di ascoltare in mille versioni sempre emozionanti e ricchi di pathos, accompagnato dai suoi fedelissimi (ma nell’inedita formazione con due bassisti, Rob Wasserman al contrabbasso e Fernando Saunders), Mike Rathke alla chitarra, Tony Smith alla batteria.

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