Lucia Vastano cavalca il suo bel «Cammelliere»

Pochi sanno raccontare con la foga sentimentale di Lucia Vastano trame ambientate in mondi molto distanti (non solo geograficamente) dal nostro. Il suo ultimo romanzo, Un cammelliere a Manhattan (Salani, pagg. 296, euro 15), pone in primo piano la millenaria tradizione afghana, sconvolta dalla dominazione dei talebani, dalla guerra, dal terrorismo e dalla povertà. Racconta l’autrice che l’idea le è venuta da un singolare incontro nel pietroso deserto nell’Afghanistan meridionale: un cammelliere dagli occhi verdi e dalle sembianze di un divo di Hollywood, nel magico paesaggio «di dune di sabbia e pietra e di dromedari nella fioca luce del tramonto». Il senso drammatico dell’azione è inserito sullo sfondo di strade affollate di vita, in una cornice di morte, pregiudizi e riti tribali.
Da lì comincia la storia, ricca di colpi di scena, di un ragazzo e di una ragazza, Azad e Muna, solo apparentemente diversi dagli adolescenti del resto del mondo, ma in realtà pieni di voglia di vivere e di sentirsi liberi. La spinta a uscire dal guscio domestico viene dalla giovane diciassettenne, bella e promessa sposa di Azad. Seguendo l’insegnamento del padre («chi sa essere in buona compagnia con se stesso non sarà mai solo»), decide di fuggire travestendosi da ragazzo e fingendo di esser stata rapita per aiutare il cugino a realizzare il suo sogno di viaggiare. E ci riesce al punto che si ritroveranno in America e infine in mezzo al mare.

Ma, proprio perché la loro fuga avviene separatamente, il racconto delle loro avventure è narrato in prima persona ora dall’uno, ora dall’altra, così da rendere l’intreccio facile da seguire, in un susseguirsi di immagini dai violenti chiaroscuri e dai riflessi vividi.

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