In Italia cè ancora chi vorrebbe far pagare un prezzo per la popolarità che si raggiunge attraverso la cultura. Perfino da un genio come Pavarotti è stato preteso un pedaggio perché avrebbe attraversato strade che si ritengono culturalmente indegne, cioè popolari. E, non a caso, il grande artista nel suo testamento spirituale ha ribadito di voler essere ricordato come cantante lirico perché, alla fine, anche la sua forte tempra è stata probabilmente scalfita dagli attacchi di quelle élite culturali che lo avevano pesantemente criticato quando aveva proposto un repertorio, oltre a quello lirico, più semplice e immediato, cioè popolare.
Ma Pavarotti sarà ricordato per la sua voce straordinaria, seducente, messa a disposizione dellalta tradizione lirica come delle canzoni orecchiabili, che parlano al cuore della gente, a quel popolo che ieri si è stretto a lui in modo impressionante piangendolo, osannandolo quasi fosse un grande leader politico, un padre della patria.
Fenomeno raro nella realtà culturale italiana, che illustra una perfetta simmetria: tanto è grande la popolarità dellartista, quanto è grande la miseria delle nostre élite culturali.
Mentre nei Paesi anglosassoni e in Francia si avverte lesigenza di legare popolo e cultura, nel nostro Paese questo legame viene considerato un tradimento della cultura, della sua purezza, della sua ieraticità. Ma in verità non è la cultura a essere tradita: sono le élite culturali che si sentono emarginate e lanciano sconfessioni e anatemi non appena vedono che si sta creando un legame tra luomo di cultura e il popolo.
Si considerano élite culturali i professori universitari, i critici, i giornalisti delle pagine culturali. Pretendono di essere i padroni dei linguaggi artistici, di essere depositari del potere di decidere chi vale e chi no, e quando cè qualcuno che se ne infischia di loro e riesce a stabilire un rapporto diretto colla gente ecco che gridano allo scandalo. Le loro regole di cooptazione (essenzialmente ruffiane) non sono state seguite, è stato commesso un reato di lesa maestà culturale: il giudizio del popolo si è sostituito al loro.
In realtà queste élite culturali contano sempre meno, e un grande merito, nel ridurle a poca cosa, si deve alla televisione (cè in proposito un saggio molto bello di Alberto Abruzzese). Oggi, per lo più, sono confinate nelle giurie dei premi culturali, dando prova di cattiveria e di mediocrità, come si è visto recentemente al premio Viareggio o al Campiello, dove gli illustri critici se la sono presa con le scelte della giuria popolare.
Professori universitari collambizione di far uscire il loro nome dalle aule, critici di una certa notorietà, giornalisti di una certa competenza culturale, sono anchessi una piccola casta che si è data come missione quella di stroncare la cultura popolare (tra laltro, anche, la divulgazione scientifica e storica): poi cè chi nella casta ci casca. Sono quegli artisti che hanno una forte vocazione popolaresca ma se ne vergognano. Così invece di essere orgogliosi di quel talento, di curarlo e alimentarlo, fanno grandi esercizi di trasformismo per apparire personaggi di alta elitaria dignità culturale. Beppe Grillo: è un comico esilarante, bravissimo... poi però vuole fare il Leone Trotzki dItalia e diventa un po grottesco. Serena Dandini, eccellente animatrice di talk show, che potrebbe competere alla pari con Vespa, Costanzo... poi però si mette in testa di essere la nostra Dolores Ibarruri e diventa un po fastidiosa. Stefano Benni, bravo scrittore umorista... poi però crede di essere Thomas Mann, e la cosa diventa un po imbarazzante. E ce ne sono tanti altri, aggiungeteli voi, sono tutti a sinistra. Interessante: a loro fa schifo la cultura popolare e si travestono da élite culturali.
Ma abbiamo anche grandi esempi di artisti che hanno amato la loro vocazione popolare e hanno seguito la loro stella infischiandosene dei critici, come Totò. Massacrato in vita, celebrato dopo morto da quegli stessi critici.
Stefano Zecchi
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