Roma Il Pd è l’unico che può tenere «unito il Paese». Pier Luigi Bersani dixit, al termine di una Direzione che ha fatto emergere le spaccature che attraversano non la nazione, ma il partito che la dovrebbe unire. Il parlamentino Pd era stato convocato mesi fa e la seduta si annunciava soporifera, se si escludono i Radicali che avevano annunciato iniziative per richiamare il principale partito della sinistra al rispetto degli impegni su maggioritario e uninominale, e i mugugni dei Rottamatori, che comunque avevano già detto che non avrebbero partecipato alla Direzione.
Il canovaccio non prevedeva nessuno scontro su Marchionne, nonostante le divisioni siano profonde. E nemmeno i veltroniani, oppositori ufficiali del segretario in carica, sembravano volere dare battaglia sul vero nodo, quello di chi guiderà il Pd alle prossime elezioni. Poi, però, Bersani ha deciso di chiedere un mandato pieno. «I prossimi mesi - spiegava - decideranno per i prossimi anni. Sono alla ricerca del massimo di unità, ma serve anche chiarezza e chiederò che la direzione assuma una responsabilità attraverso il voto».
Decisione sofferta e per nulla scontata, fino a ieri mattina. A caldeggiarla, soprattutto Areadem, la corrente di Dario Franceschini che sostiene il segretario. Enrico Letta, altro democratico di provenienza Dc schierato con Bersani, ha invece cercato fino all’ultimo momento di convincere il leader a rinunciare, ma forse nemmeno lui si aspettava la reazione della minoranza del Movimento democratico (MoDem) guidata Walter Veltroni e la piega che avrebbero preso di lì a poco gli avvenimenti.
Subito dopo l’annuncio di Bersani, i veltroniani Walter Verini e Paolo Gentiloni denunciavano «la ricerca spasmodica della conta», criticavano l’insistenza del segretario sull’idea di mettere insieme una coalizione che va dal Terzo polo a Nichi Vendola e quindi annunciavano il no alla relazione.
Non contento del risultato, il fanceschiniano Gianclaudio Bressa invitava i dissidenti a farsi da parte: «Per gli esponenti di Modem si apre un problema: come si può continuare a gestire importanti incarichi in un partito di cui non si condivide la linea politica?».
Pochi minuti dopo, nel partito che vuole unire il Paese, si manifestava lo spettro della scissione. Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni, rispettivamente responsabile Welfare e Comunicazioni del Pd, annunciavano le loro dimissioni e tra diverse anime democratiche iniziava la rissa su tutte le questioni aperte. Rivolta sedata sul nascere grazie a Vasco Errani, governatore dell’Emilia Romagna, e a Massimo D’Alema. A mettere la parola fine, una dichiarazione di Bersani che sconfessa i franceschiniani: «Non mi è mai passato per l’anticamera del cervello che chi dissente dalla linea politica debba lasciare gli incarichi di partito».
Risultato: i veltroniani non hanno partecipato, anche perché - insinuavano esponenti Aredem - avrebbero potuto contare su circa venti voti contro i 127 «sì» che ha raccolto Bersani. Alla fine, comunque, tutti erano scontenti. L’area MoDem, costretta a uscire allo scoperto; i franceschiniani, che speravano di mettere fuori qualche pezzo da novanta dell’opposizione, in particolare Fioroni.
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