L'ultimo scultore antico, armato di forza e dolore

Le sue opere ci fanno sentire la nostra solitudine. Come Pollini, ha cercato nell'arte l'essenza

L'ultimo scultore antico, armato di forza e dolore
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Se ne vanno quasi nello stesso momento, a vite compiute, Giuliano Vangi e Maurizio Pollini. La loro grandezza è stata favorita, potenziata dalla loro maturità. Ci hanno fatto vedere e sentire con occhi e orecchie diversi, resi consapevoli dalle loro interpretazioni. Perché per Vangi, come per Pollini rispetto a Mozart e a Beethoven, si è trattato di reinterpretare la grande scultura di Giovanni Pisano, di Arnolfo di Cambio, di Tino di Camaino, di Jacopo della Quercia, di Donatello, di Michelozzo, di Michelangelo. Lo studio della statuaria antica e medievale, soprattutto toscana, sostiene tutte le sue immagini. Pollini, con umiltà diceva: «Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica? Dall'emozione che ci procura. È un criterio soggettivo, eppure è l'unico che funziona veramente». È questo il senso della vita di un artista: farci capire.

Vangi è stato l'ultimo scultore antico, classico italiano. Ci ha trasmesso emozioni, fisiche, psicologiche, facendoci sentire la forza e il dramma del nostro tempo. Franco Russoli aveva parlato per Vangi di «un'idea della condizione umana moderna, intesa come solitudine, ansia, muta domanda senza risposta esauriente». Davanti alla sua opera noi sentiamo la nostra solitudine. La sua concezione dell'arte è pensata per noi e per il mondo, nelle sue forme infinite, come ha fatto Pollini con la musica.

Vangi ha un grande e compiuto museo della sua opera in Giappone. Sul fianco di un colle ai piedi del vulcano sacro del Giappone, il Fuji, in uno scenario di bellezza a Mishima, a 100 chilometri a sudovest di Tokyo, il primo museo al mondo dedicato a uno scultore vivente. Tra le opere all'esterno, tre megainstallazioni: Stratificazione, in cui una grande figura seduta, che sembra formata dalla sedimentazione degli strati, contempla alberi pietrificati alti sei metri, L'uomo nel canneto, dove un uomo filiforme esce da una foresta di canne e s'accorge del paesaggio circostante con stupita e dolorosa meraviglia, e La scala del Cielo, opera in due parti, una emergente e l'altra sotterranea.

La forza e il dolore sono stati lo spirito della sua arte. Tanto contemporanea quanto antica, come è la storia dell'uomo e dei suoi sentimenti. Vangi e Pollini sono stati grandi perché hanno sempre cercato, nell'arte, l'essenza. E sono certo di avere sentito attraverso uno l'altro, in una compiuta solidità della forma. Forma plastica era la musica di Pollini, musica della varietà dei marmi la scultura di Vangi. Oggi la loro assenza me li fa sentire uniti, ed è un poeta che dice il loro stato d'animo, Gottfried Benn, scrivendo di Chopin, nelle sue Poesie statiche. Dalle sue parole esce la scultura dolente di Vangi, e si vede il gesto di Pollini, sofferente ed essenziale.

Per entrambi l'opera è opera delle mani. Le mani dello scultore, le mani di Vangi. Diceva Vangi: «L'ispirazione è la stessa: vi è sempre l'uomo con i suoi sentimenti, aspirazioni e dolori. L'uomo a contatto con la natura, con le sue sofferenze e mi piace rappresentarlo fisicamente e psichicamente». Ecco Vangi. Ecco Pollini, in queste parole perfette di Benn.

«Conversatore avaro,/ le opinioni non erano il suo forte,/ le opinioni non vanno mai al sodo,/ s'agitava quando Delacroix/ illustrava teorie, quanto a lui non avrebbe/ saputo spiegare i suoi Notturni./ Debole amante;/ un'ombra a Nohant/ dove i figli di George Sand/ rifiutavano i suoi/ consigli pedagogici./ Tisico in quella forma,/ con emottisi e cicatrizzazioni,/ che tira in lungo;/ morte tranquilla/ a differenza d'una/ con spasmi e parossimi/ o per salva di colpi:/ spinsero il piano (Erard) vicino alla porta/ e Delphine Potocka/ gli cantò nell'ora estrema/ il Lied di una violetta./ Andò in Inghilterra con tre pianoforti:/ Pleyel, Erard, Broadwood,/ la sera suonò per 20 ghinee,/ un quarto d'ora,/ da Rothschild, dai Wellington, a Strafford House/ e davanti a innumerevoli Ordini della Giarrettiera;/ incupito di stanchezza e di morte/ ritornò a casa/ in Square d'Orléans./ Poi brucia i suoi schizzi,/ i suoi manoscritti,/ che non ci fossero resti, frammenti, annotazioni,/ questi indizi rivelatori -/ alla fine disse:/ Le mie opere sono complete nella misura di ciò/ che mi era dato di raggiungere./ Ogni dito doveva suonare/ secondo la sua conformazione,/ il più debole è il quarto/ (solo un fratello siamese del medio)./ Quando attaccava, posavano sul/ mi, fa diesis, sol diesis, si, do./ Chi di lui mai sentì/ certi preludi,/ sia in ville che in alte/ valli sui monti oppure/ da porte spalancate su terrazze/ per esempio in un sanatorio,/ difficilmente potrà dimenticarlo.

/ Mai composto un'opera,/ mai sinfonia,/ solo queste tragiche progressioni/ per convinzione d'artista virtuoso/ e con una piccola mano».

Non potremo dimenticarli. Continueremo a vederli. Continueremo a sentirli. L'arte non muore. È nelle loro mani.

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