diC'è una doppia verità che investe l'esperienza umana e creativa di alcuni artisti. Una necessità di continua riabilitazione o - nel caso di specie - di rivisitazione, come se fosse necessario tornare a verificare, mutati i tempi e le sensibilità, ciò che era già stato riconosciuto e affermato. Ritrovare e riconfermare le ragioni che avevano condotto a stabilire il valore certo. E che invece è di nuovo messo in discussione.
Per alcuni artisti il successo è improvviso e definitivo. Per altri - si può ben dire - gli esami non finiscono mai. È il caso di un grande pittore come Pietro Ghizzardi, il giudizio sul quale sembrava consolidato, non soltanto con le approfondite e lusinghiere valutazioni della critica, ma anche con la pubblicazione delle memorie da parte del più prestigioso fra gli editori italiani, Giulio Einaudi, che aveva ammesso, in una sua collana, il volume Mi richordo anchora ulteriormente segnalato dal Premio Viareggio.
In quel libro, il cui spirito corrisponde perfettamente a quello che portò Saverio Tutino a creare il premio di Pieve Santo Stefano dedicato a memoriali, testimonianze, diari, epistolari, non di scrittori, ma di persone comuni che raccontano un'esperienza o una storia, anche recuperate da un passato remoto e anche con clamorosi errori di sintassi e di ortografia, Ghizzardi racconta la sua vita e la sua esperienza. Con un'immediatezza e una verità orale che, insieme alle opere, ci mette davanti a una vita, nell'Italia contadina e rurale della valle padana. Del libro si volle, per l'eccezionalità, intendere il valore letterario. E per un artista si trattava comunque di un exploit con rari precedenti, se non il solo del Libro mio di Pontormo.
Si estasiarono, ai ricordi di vita povera e contadina, Giancarlo Vigorelli, Umberto Cavicchioli, Renzo Margonari, Raffaellino De Grada, Marzio Dall'Acqua, Franco Solmi, Vittorio Erlindo. Ed ebbero una ragione in più per considerare notevole Pietro Ghizzardi come un ideale test psicoanalitico. Non soltanto le opere dunque, ma l'autoriflessione sulla propria esperienza, con l'immediatezza feroce di una verità calda e imbarazzante. Ma evidentemente non bastò. Tutto concorse, anche nell'aperto contrasto di valori estetici, a favorire, leggendario e pittoresco, il, non molto più vecchio di Ghizzardi, pittore selvaggio Antonio Ligabue, in bilico tra dimensione onirica e inveramento autentico dell'esperienza naïve .
Per Ligabue, dopo il lancio di Mazzacurati, Zavattini e, anche qui, un editore sofisticatissimo come Franco Maria Ricci, indifferente alla seduzione infantile del mondo naïf , non ci fu bisogno di un processo d'appello per stabilirne, se non l'innocenza, la veritiera esperienza creativa. Ligabue fu, ed è. Trovato, qualche anno dopo, poco lontano da Gualtieri, a Boretto, per pura contiguità territoriale più che estetica, Ghizzardi ancora si agita in un limbo indefinito di giudizi continuamente sospesi, rimandati, o da riformulare. Eppure nessun dubbio, che la sua incredibile ed esuberante galleria di ritratti di uomini e donne sia l'equivalente del metodo narrativo della sua autobiografia, come un filo che si dipana inarrestabile e incontenibile.
Ghizzardi descrive un mondo, senza apprezzabili mutamenti stilistici nell'arco di più di sessant'anni di operosità e di ossessioni sulle rive del Po. Vedremo distintamente le due poetiche, per così dire quella epica - come epos del mondo contadino - di Ligabue, e quella intimistica, lirica di Ghizzardi, desideroso di cogliere nei volti un segreto interiore, un'inquietudine, un desiderio. Un'umanità dolente, sottoposta ad analisi, con la stessa continuità e ossessione, applicata ad altri soggetti e a un altro mondo, di Lucian Freud.
Davanti all'opera di Ghizzardi siamo chiamati a un confronto continuo con anime. Scriveva Vigorelli: «Diciamo la verità. La sorprendente quadreria di ritratti, soprattutto femminili, di Ghizzardi, è unica, anche nella sua ripetitività assediante. Quale altro pittore oggi, ha lavorato sulla faccia dell'uomo, e più della donna, con l'accanimento fisiognomico di Ghizzardi? \ e tutti quei ritratti sono anche il suo onesto bisogno di restituire, anche sfigurandolo, un volto ad ogni uomo».
Ciò che non era stato possibile a Morandi, o che era stato sempre sopra le righe nella pomposa retorica e nei travestimenti di Giorgio De Chirico, e che si era ristretto quasi esclusivamente al proprio volto in Ligabue, si manifesta liberamente, in un'esaltazione della vita, in Ghizzardi, nella sua umanità ritrovata, anche fragile, anche tormentata, anche rassegnata, ma più che mai autentica. Ghizzardi si pone davanti all'uomo, rivelandone frustrazioni e desideri. E i suoi volti hanno la verità e l'evidenza dei ritratti del Fayyum, un mondo dei vivi, per un «paese» molto più grande di quello di Paul Strand.
Il paese di Ghizzardi non è Boretto, ma è un paese dell'anima. Le sue modelle sono Dolcezza, Felicita, Schacchelia, la Patarona, Speranza, Disperazione, Regina, Quirina, Agostina, Bruna (sensualissima), Rosi, Ylenya, Marinka, Katiuscia, tutte a petto nudo o con abiti succinti, come oggetti del desiderio; ma anche un Gabriele D'Annunzio con una folta chioma di capelli neri e una seducente Lollo molto compunta. C'è anche, sensuale a provocante, Sylva Koscina. La realtà e il cinema si confondono, con naturalezza, senza artificio. Sono «presenze» della fantasia erotica.
A vertici così alti di umanità pochi pittori sono arrivati. E hanno parlato per tutti nella dimensione universale dell'arte. A Ghizzardi toccherà presto di essere riconosciuto tra questi.
Per intanto, è forse utile accostarne il nome a un altro grande pittore di figura e di volti, e della condizione umana come turbamento, come tormento: Willy Varlin. Verrà il giorno, per entrambi, di un pieno riconoscimento come pittori della vita.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.