Lumet: non so fare commedie per questo ho rovinato un film

Il grande cineasta americano a Roma per il lancio di «Prova a incastrarmi» dà lezione di cinema all’Auditorium della musica con ironia e senza spocchia

Michele Anselmi

da Roma

Diciamo la verità, il suo nuovo film, quel Prova a incastrarmi da venerdì nelle sale, non è all’altezza del glorioso medagliere. Ma averne, di registi come Sidney Lumet. Alla veneranda età di ottantadue anni, senza atteggiarsi a vittima del sistema o a pensionato di lusso, il regista di film meravigliosi come La parola ai giurati e La collina del disonore, Serpico e Quel pomeriggio di un giorno da cani, Quinto potere e Il verdetto, per dirne solo sei tra i quaranta firmati dal 1957 ad oggi, s’è convertito al digitale ad alta definizione per girare a basso costo questa commedia d’ambiente mafioso interpretata da un camaleontico Vin Diesel.
Come saprete dalle corrispondenze berlinesi del nostro Cabona, il roccioso e atletico divo di film d’azione è ingrassato di quindici chili per incarnare sullo schermo Giacomo Di Norscio, detto Fat Jack: il trafficante italo-americano che, a metà degli anni Ottanta, nel corso del più lungo processo collettivo per mafia, riuscì a conquistarsi la simpatia della giuria improvvisandosi avvocato difensore di se stesso. Il suo slogan? «I’m not a gangster, I’m a gagman». Azzeccato gioco di parole che nella versione italiana, molto colorita sul piano del doppiaggio, viene reso così: «Non sono un malavitoso, sono una spiritoso».
Anche Lumet è un uomo spiritoso. Volato a Roma per promuovere la sua creatura, il cineasta newyorkese, uno dei più lucidi protagonisti di quel cinema di impegno civile che indagò sul rapporto tra individuo e istituzioni «forti», sfodera una sublime qualità: non se la tira nemmeno un po’. Per un’ora e mezzo sabato sera, incurante del fuso orario sballato, s’è fatto intervistare da Antonio Monda e Mario Sesti di fronte a settecento persone, all’Auditorium della musica. Potremmo chiamarla una lezione di cinema, se non fosse che Lumet, intellettuale liberal mai incline al comizietto, poco ama la chiacchiera cinefila e la celebrazione acritica. In sala, confusi nel pubblico, Michele Placido, Marco Risi, Francesco Rosi: quest’ultimo, omaggiando il collega con qualche aggettivo di troppo, ha strappato l’applauso salutandolo in inglese con un «Good night, and good luck».
Concentrato e amabile, Lumet ha subito spiazzato i filmofagi spiegando: «Uno stile troppo esibito è un pessimo stile». Per dire, insomma, che una ricerca formale esasperata rischia a volte di risultare fine a se stessa. Oltre che ridicola. Controprova? «Una volta chiesi a Kurosawa perché aveva sistemato in un certo modo la cinepresa. Lui, sorridendo, rispose: perché se la spostavo di due centimetri a sinistra sarebbe entrata in campo una fabbrica della Sony, di due a destra un aeroporto». Nondimeno, Lumet è regista artisticamente complesso, che gode a trasformare le limitazioni in risorse espressive. Come nel caso del suo esordio, La parola ai giurati, 1957, dove Henry Fonda capovolgeva un verdetto ingiusto fondato sul pregiudizio. «Girare tutto il film in un interno fu una bella sfida. L’idea era di rendere quella stanza sempre più piccola e opprimente a mano a mano che Fonda smantellava le sicurezze dei suoi colleghi. Di solito, però, non scelgo le posizioni e i movimenti della cinepresa avendoli in testa. Se la regia è corretta, vengono da soli».
Cresciuto a pane, tv e drammaturgia (da Miller a O’Neill), Lumet crede nel valore fondante della parola. Difatti i suoi film sono molto parlati, raramente verbosi. «Di solito, se accetto il progetto, non cambio un riga della sceneggiatura scritta da altri. Un’eccezione? Quel pomeriggio di un giorno da cani. Prima di girarlo, provammo per tre settimane, come si fa a teatro. Volevo che gli attori, a partire da Al Pacino e John Cazale, portassero il massimo della verità nel film, che si calassero completamente nei ruoli di quei due maldestri rapinatori di banca. Quando cominciarono a eccepire su questa o quella battuta, capii che stava scattando la trappola da me stesso creata. Così, insieme agli sceneggiatori, riscrivemmo il copione alla luce di quelle improvvisazioni, conservandone la struttura ma arricchendolo di spunti e suggerimenti».
Lumet è una miniera di aneddoti. Del resto ha lavorato con mostri sacri del calibro di Connery e Hoffman, Bancroft e Bacall, Pacino e Newman.

Assicura che «la commedia non è il mio forte», tanto «da aver rovinato un film di cui non vi dirò mai il titolo» (che sia Sono affari di famiglia?); ma poi ripensi ad Assassinio sull’Orient Express e ti convinci che solo uno come Lumet avrebbe potuto pilotare un cast così all-star scongiurando gigionismi di ogni genere. Dimenticavamo: sapete qual è il suo film preferito? Il Padrino parte II.

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