Luciano Gulli
nostro inviato a Sharm el Sheikh
Come quelli di Londra per Tony Blair, anche gli attentati di Sharm si stanno rivelando un insperato colpo di fortuna per Hosni Mubarak. Non che ne avesse bisogno, sintende; ma il brivido corso il 23 luglio per il Paese (soprattutto quello arrampicatosi lungo la schiena dei grandi investitori del Cairo e di Alessandria, che hanno puntato formidabili risorse sulla «perla del mar Rosso»), hanno ridato al vecchio raìs uno smalto e una verve che la lunga pratica del potere avevano un po appannato. Sicché oggi non trovi nessuno, dal direttore dellufficio postale di Sharm fino allultimo degli analisti all«Istituto studi strategici al Ahram» del Cairo, che non sia pronto a scommettere sulla sua rielezione alle presidenziali del 7 settembre prossimo.
Se qualcuno poteva avere ancora qualche perplessità, a fugargliela è venuto ieri limprimatur di uno dei grandi padri della nazione, Naguib Mahfuz. È tempo di unità politica e di compattezza popolare, ha ribadito il novantaquattrenne premio Nobel per la letteratura dalle colonne del giornale governativo Al Akhbar el Yom. Ma soprattutto, ha ricordato ai suoi concittadini lautore de «Il caffè degli intrighi», sordo e ormai quasi cieco, «non si vede nessuno in giro che lo possa sostituire».
Sicurezza. Stabilità. Sono le due colonne portanti sulle quali il settantasettenne presidente egiziano ha costruito la sua fortuna, ergendosi dal 1981 (lanno in cui fu trucidato Anwar Sadat) a garante della pace e dellequilibrio in una regione infiammata dai conflitti.
Se un rischio cè, semmai, è che gli attentati di Sharm el Sheikh finiscano per irrigidire il vecchio raìs e fargli rimangiare quelle riforme che dovrebbero far incamminare lEgitto lungo il sentiero di una democrazia compiuta. È quel che da tempo gli chiedono gli americani, grandi finanziatori del «modello Mubarak», che al più grande e popolato dei Paesi arabi ha garantito quasi un quarto di secolo di sonnolenta, ma tranquillizzante stagnazione. Il prezzo che è stato pagato - la morbida dittatura di un sistema impiombato dalla corruzione e da una vistosa disoccupazione, incapace di distribuire equamente ricchezze che tuttavia sono enormemente cresciute negli ultimi decenni; lassenza di una decente opposizione parlamentare; la stampa imbavagliata - è stato alto. Ora, dicono da Washington, è tempo di cambiare; perché è da qui, non da Bagdad, dove il tentativo è disperatamente impervio, che il modello democratico dovrà riverberare su tutto il Medio Oriente.
«Guardiamo allEuropa dellest - dice un imprenditore italiano, che sulle fortune di Sharm ha scommesso buona parte delle sue sostanze -: là, dopo la caduta del Muro si sono messi a correre. LEgitto ancora passeggia». Saranno le bombe di Sharm, saranno i pressanti «consigli» che gli arrivano da oltre Atlantico, sta di fatto che Mubarak sembra ormai deciso ad avviare quelle riforme che la borghesia intellettuale (imbambolata nella nostalgia per il grande Gamal Nasser) così come lopposizione chiedono a gran voce. Il raìs promette emendamenti alla Costituzione, un occhio meno arcigno sulla stampa, ma soprattutto labolizione di quelle leggi speciali del 1981 che tengono il Paese stretto in un (invisibile) pugno di ferro. Parlando da Shibin el-Kom, città della provincia di Menoufiya, sul delta del Nilo, dove è nato sul finire degli anni Venti, ha detto nei giorni scorsi: «Cè la necessità di una legislazione determinata e decisa per eliminare il terrorismo e sradicarne la minaccia, una legge che tuteli la sicurezza nazionale e assicuri la stabilità, fornisca unalternativa per combattere il terrorismo e sostituisca le attuali leggi speciali demergenza». Di più, lo capiscono anche gli americani, in questo momento a Mubarak non si può chiedere.
A queste elezioni, che per la prima volta ammettono candidature alternative a quella del presidente, lopposizione non crede. I partiti legalizzati sono 15. Ma a menare la danza, stabilendo se e quando la Costituzione potrà essere emendata, è ancora lui, il raìs che guarda al suo popolo con laria severa e bonaria che promana dai vecchi ritratti appesi in ogni ufficio pubblico e in ogni bazar.
Lunico vero partito dopposizione, a parte i Fratelli musulmani (grande incubatrice di tutti i partiti islamici), che restano però tagliati fuori dal Parlamento, è Al Ghad, che vuol dire domani. Ma la candidatura del suo leader, il liberale Ayman Nour (arrestato e attualmente sotto processo per reati comuni) è ancora in predicato. Nessuna chance ha la principale forza di sinistra del Paese, il partito Tagammu o il movimento Kefaya («Basta!» in arabo) che boicotteranno le urne.
Più che la libere elezioni, quelle del 7 settembre somiglieranno alla solita sceneggiata. Il fatto è, come ha ricordato Naguib Mahfuz, che «in giro non si vede niente di meglio». Saranno altri sei anni affidati alla saggezza di un padre padrone che sa come dispensare regalie e donazioni alloligarchia militare e industriale che regge il Paese senza scontentare apertamente il popolo. Ma quandanche fossero altri sei anni di corruzione e inefficienza, senti dire in ogni caffè del Cairo, meglio il 77enne, affidabile Mubarak, che un salto nel buio. Fidato come la piena del Nilo, che ogni anno sfama il Paese senza modificarne gli equilibri e il panorama, Mubarak continuerà a lasciare ai religiosi il controllo dellanima profonda della società, anche se la stretta del Mukhabarat (i servizi di sicurezza) sulle moschee diventerà più ferrigna.
Fra sei anni, a succedergli, cè già pronto un altro Gamal. Sì, di cognome fa anche lui Mubarak. È il figlio del raìs.
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