Mondo

La Lunga Marcia di dolore dei cristiani nella Cina di Mao

In un libro le drammatiche testimonianze dei sopravvissuti alle persecuzioni negli anni della dittatura del Grande Timoniere

Guido Mattioni

Era iniziata come sempre, quando hai un libro da recensire: un’occhiata alla copertina, una scorsa al risvolto per trovare lo spunto... Poi, però, incuriosito leggi la prefazione. D’un fiato. E da lì, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, ti ritrovi a divorare questo libro sempre più velocemente, con incredula avidità e inesplorato orrore. Ciò che hai tra le mani - Il libro rosso dei martiri cinesi, edizioni San Paolo, 272 pagine, 16 euro - è la storia di un incubo, il racconto di una follia, ma anche la grande poesia della fede. Leggi e inorridisci. Leggi e quasi non ci credi. Leggi e ripensi a quelli - ne hai conosciuti, mica solo ragazzi, perfino professori, per non dire dei colleghi - che ti parlavano, e convinti, di Mao Tze Tung come il «Grande Timoniere». Ma anche del maoismo come il migliore dei sistemi possibili e di quella Cina come un Paradiso in terra.
Vorresti farle leggere a loro, adesso, queste pagine. E scrutarne sui volti le reazioni. Sono le storie, tutte documentate, di alcuni cristiani sopravvissuti ai campi di prigionia cinesi nel quarantennio iniziato a metà anni 40, con la guerra tra comunisti e nazionalisti, e conclusosi nel 1983, poco prima dell’inizio della «modernizzazione» avviata da Deng Xiaoping. In quell’arco di tempo - anzi, sotto ad esso - sono rimaste le vittime di un’immane e sanguinosa «recita» ideologica, animata da coreografie di bimbi in divisa e scandita da slogan idioti spacciati come grandi saggezze. Un numero spaventoso di vittime, tale da porre Mao, il «Sole rosso», alla stregua degli altri due mostri del XX secolo, Hitler e Stalin: 80 milioni di morti solo nel periodo del «Grande balzo in avanti», dal ’58 al ’61, come rivelato dall’ex gerarca Chen Yizi con il conforto di un documento dello stesso Partito comunista in cui erano stati censiti, con zelo e gelo burocratici, gli scomparsi - letterale - «per cause non naturali».
Erano uomini e donne di fede cristiana, nonché sacerdoti e missionari, ma anche dissidenti e intellettuali in genere, definiti dal cereo mummione in divisa verde «i nemici senza fucile». E destinati quindi all’eliminazione in quella che lui stesso chiamò, con cinica ipocrisia, la «riforma del pensiero». Cioè la morte di chi osava pensare. Mao, quindi, primo propagatore di quella malattia mentale che ebbe poi un degno portatore malsano nel dittatore cambogiano Pol Pot, sterminatore di chiunque indossasse un paio di occhiali.
Il libro contribuisce a squarciare un velo ancora quasi intatto, ovvero quello che avvolge i laogai, i campi di sterminio della Cina comunista. Luoghi criminalmente rimossi, perfino dopo la morte di Mao (9 settembre ’76), da certi inutili e nocivi intellettuali occidentali come Jean Paul Sartre, colpevoli quanto meno di connivenza culturale con quel regime. Luoghi taciuti anche dai governanti attuali di Pechino, quasi «per accantonare l'ingombrante figura» di Mao e per non dover fare «i conti con la storia», come scrive nell’introduzione il curatore del libro, Gerolamo Fazzini, condirettore del mensile Mondo e Missione. Luoghi rimasti quindi nell’ombra anche perché i laogai cinesi non hanno avuto un Solzhenicyn che ne testimoniasse in prima persona gli orrori, com’era invece accaduto con l’Arcipelago gulag del premio Nobel sovietico.
Così ora, leggendo queste pagine, da quel buio si vedono uscire, prendendo corpo, uomini e donne di cui ignoravamo l’esistenza e il martirio. Come Geltrude Li, maestrina di una scuola cattolica incarcerata per la sua amicizia con i missionari e che scrisse le proprie memorie su pezzi di carta sagomati a forma di suole, per nasconderli nelle scarpe del sacerdote che di tanto in tanto andava a visitarla. O come i frati del monastero di Yangjiaping (saccheggiato dai maoisti nel ’47), umiliati e torturati prima di essere sottoposti a un’autentica Via Crucis protrattasi per settimane. O ancora, come padre Tan Tiande, cacciato dalla cattedrale di Canton (poi chiusa fino al ’79, con un eloquente cartello «Vietato entrare» all’ingresso) e trascinato senza processo in un gelido campo di lavoro nel Nordest del Paese. Ne uscì dopo trent’anni passati tra catene, celle anguste e la fatica quotidiana dei campi induriti dal gelo. Eppure oggi, ultranovantenne, è ancora qui a raccontarsi e a dirci come ce l’ha fatta. Perché «per chi non ha fede, un giorno in carcere è come un intero anno. Ma io ho fede e tutte le sofferenze che sopportavo per amore di Gesù divennero per me una gioia», spiega con parole semplici e invidiabili.
Parole che anche se fosse vivo, Sartre non capirebbe ancora.

Inutile anche da morto.

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