Macché matriarcato. Quelle Veneri sono delle Veline

In mostra a Milano statuine femminili del 27 mila avanti Cristo. Ma non si direbbero certo divinità...

Macché matriarcato. Quelle Veneri sono delle Veline

L a mostra «Dal 27000 a.C. Antenate di Venere», aperta al Castello Sforzesco di Milano fino a tutto il febbraio 2010, è tanto ricca di informazioni scientifiche quanto piena di quelle «suggestioni» che immancabilmente suscitano le immagini femminili.

Notiamo subito che qui prevalgono i reperti di statuine femminili. Per quanto si tratti di una selezione voluta, non si può fare a meno di riflettere su di un fatto ricorrente e che accomuna le conoscenze che abbiamo di qualsiasi civiltà, sia del passato più remoto che di quello recente: le rappresentazioni femminili sono sempre più numerose di quelle maschili, soprattutto più significative, con l’accentuazione sessuata del loro corpo, il segreto del loro volto sotto la meticolosissima pettinatura. Sembra quasi che gli uomini della preistoria abbiano voluto, come nelle odierne guide turistiche, far apprezzare il loro mondo piazzando qua e là soprattutto immagini di donne. Questo fatto ha talmente colpito la fantasia degli studiosi da far nascere a più riprese, durante gli ultimi due secoli, le più ardite teorie su un originario periodo di matriarcato, di potere delle donne, accompagnate da ipotesi sulla Grande Madre come potentissima divinità, dando luogo a dispute accesissime fra storici e archeologi invasi da una specie di febbre femminista ante litteram.

(Succederebbe lo stesso, tuttavia, agli eventuali archeologi di un lontanissimo futuro che, trovandosi davanti alle innumerevoli statue della Madonna dell’Europa cristiana e in mancanza di una documentazione scritta, sarebbero autorizzati a credere che è una donna il nostro Dio.)

Soltanto quando nel ’900 sono sopraggiunti gli antropologi, con la loro documentazione sulle società «primitive», dove il potere non è mai nelle mani delle donne, gli entusiasmi a poco a poco sono rientrati e, malgrado il femminismo abbia tentato di farli resuscitare, la ragionevolezza ha preso il sopravvento e il matriarcato è ritornato a essere quel fantasma maschile, piacevole o pauroso secondo i casi, che è sempre stato.

Del resto è evidente che è stata una ferma, sicura mano maschile a forgiare, a scolpire le statuine che ci troviamo di fronte. La nitida chiarezza dell’idea che la guidava era tale che riusciamo a percepirla, a comprenderla immediatamente anche in un solo «pezzo» di un corpo mutilato. Quel corpo è l’oggetto di un pensiero che ha voluto comprendere tutto, il mondo intero, la vita dell’uomo e la propria stessa vita attraverso la donna, attraverso il segreto nascosto nella donna, nascosto nel corpo della donna, un corpo che è tutt’uno con il suo spirito, con la sua anima. È questo capire, nella fisicità, e al di là della fisicità sessuata di quella donna che l’artista ha modellato, ciò che giunge fino a noi. Seni, natiche, vulva, vita, cosce, non sono oggetto né erotico né sessuale; non è né il desiderio maschile, né la fecondità, né la maternità il significato della loro rappresentazione. Il significato è nascosto in quello che il vir teme talmente da non parlarne praticamente mai, anche se è presente e sottinteso in ogni discorso: la propria «potenza» sessuale, quel «fallo» per il quale continuiamo a usare una lingua di rispetto e che, oggi come ieri, il maschio cerca di conoscere attraverso lo strumento-donna. Nelle statuine femminili noi, a nostra volta, dobbiamo cercare il maschio.
Davanti alla straordinaria ricerca di materiali e di tecniche per poter mettere in atto l’arte della «rappresentazione» che i reperti della più antica preistoria ci testimoniano, le abituali interpretazioni di tipo magico, rituale, religioso, misterico, appaiono sempre più povere, inadeguate. Basterebbe, forse, la figurina femminile rappresentata su di un dente di cinghiale a «sorprendere», a scuotere la nostra pigrizia mentale, l’ovvietà delle nostre convinzioni. Può darsi che la fecondità femminile fosse collegata all’agricoltura; può darsi che particolari riti servissero a garantire un buon raccolto: la capacità associativa del pensiero logico sicuramente si è applicata in questo campo come in tutti gli altri bisogni di sopravvivenza.

E d’altra parte, come dice Léroi-Gourhan, se i riti e le preghiere fossero consistiti nel camminare in processione lanciando dei fiori verso il cielo, noi non potremmo saperne nulla.

Ma di una cosa dobbiamo essere sicuri: non sono stati questi bisogni a spingere un uomo-creatore, un grandissimo artista del quale purtroppo non abbiamo la firma, a selezionare un dente di cinghiale per «adattarvi» la forma femminile che voleva rappresentare.

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