Il made in China trasloca e mette radici in Etiopia

Pechino delocalizza: l'abbigliamento prodotto in Africa. Ma spunta il rovescio della medaglia

Luigi Guelpa

Zhang Xiuwei è il direttore generale della multinazionale tessile Indochine. Dispone di un ufficio luminoso nel nuovo stabilimento dell'azienda. È euforico: siamo a maggio, è passato appena un anno dall'inaugurazione della zona industriale etiope di Hawassa (270 km a sud di Addis Abeba) e già 2mila operai sono al lavoro. L'obiettivo è assumere 25mila lavoratori etiopi entro la metà del 2019. «Fino a 24 mesi fa qui c'erano solo campi coltivati - racconta - quale altro paese sarebbe in grado di cambiare tanto nel giro di due anni?». Zhang è originario di Shenzhen e ha lavorato nel settore tessile oltre che in patria anche in Bangladesh e in Egitto. Con le penne sistemate nel taschino della camicia, guarda dalla finestra il reparto produzione, dove gruppi di donne cuciono, stampano loghi e sistemano le pieghe delle mutande Warner's, una marca venduta nei centri commerciali americani della catena Walmart. «Il governo di Addis Abeba si è assunto un grande onere - aggiunge - ha fatto lavorare i muratori 24 ore al giorno per costruire le fabbriche. E senza ombra di corruzione». La zona industriale di Hawassa è nata molto rapidamente grazie a un'azienda pubblica cinese che in pochi mesi ha realizzato una sessantina di capannoni destinati alla produzione tessile. Il costo è stato di 250 milioni di dollari. I collaboratori di Zhang esaminano tutte le richieste di lavoro, presentate in larga misura dalle donne dei villaggi, che affrontano lunghi viaggi in autobus e poi aspettano ore per chiedere di essere assunte a 25 dollari al mese. Al centro servizi le donne si sottopongono a test di idoneità e vengono suddivise in tre categorie: le più dotate finiscono alle macchine da cucire, le meno qualificate si occupano di impacchettare i prodotti e delle pulizie.

È un vero e proprio momento di passaggio per il settore tessile nel mondo quello a cui stiamo assistendo: l'Etiopia, paese del Corno d'Africa con più di cento milioni di abitanti, ed ex colonia italiana, ha scoperto la vocazione «cinese», trasformandosi nell'ultimo livello della filiera che produce abiti economici e alla moda. Tant'è che il celebre talloncino Made in China sta diventando poco alla volta Made in Ethiopia. Attirata dagli incentivi fiscali, dalle promesse d'investimento nelle infrastrutture e da una manodopera a costi bassissimi, la Cina è diventata intermediaria per grandi aziende dell'abbigliamento come Guess, H&M e Levi's. Per queste imprese l'Etiopia è appetibile perché il governo di Addis Abeba ha bisogno di loro almeno quanto loro hanno bisogno di manodopera e di sgravi fiscali. L'inaugurazione di Hawassa è solo l'ultima tappa di un ambizioso progetto che dal 2014 ha visto l'apertura di quattro aree industriali di proprietà dello stato. Altre otto sono in fase di realizzazione e nasceranno nel 2020. L'Etiopia può permettesi tanta generosità perché riceve molti soldi dalla Cina. Dal 2010 al 2015 ha ottenuto 12 miliardi di dollari in prestiti. Parte di questi fondi sono finiti alle aziende cinesi che costruiscono dighe, strade e reti di telefonia cellulare sfruttando la manodopera etiope, rafforzata, e non è la prima volta, dai prigionieri dei campi di concentramento, i Laogai. L'obiettivo è creare due milioni di posti di lavoro nel settore manifatturiero entro il 2025, arrivando, fa sapere il ministro dell'Economia cinese Liu Kun, a trasferire due terzi del tessile da Pechino ad Addis Abeba.

Sembra quasi una favola, ma il lieto fine nessuno ha il coraggio di scriverlo perché non si può. L'altra faccia della medaglia di Hawassa è rappresentata dalle proteste del partiil quale ha redatto un dossier che ha messo in imbarazzo il premier Abiy Ahmed e allarmato Pechino. Gli espropri per costruire gli stabilimenti sono stati condotti con palesi irregolarità: molti agricoltori hanno raccontato di essersi fatti abbindolare dalla promessa di 40mila dollari per i terreni e di lavoro per i figli. Alla fine hanno ricevuto soltanto 6mila dollari e nessuna assunzione. Per non parlare delle reali condizioni lavorative delle donne. «Hanno appena mezz'ora per mangiare, lamentano dolori alla schiena, la sera sono esauste e poco dopo si ammalano. Quando le squadre di lavoro non riescono a raggiungere l'obiettivo fissato, i capi iniziano a maltrattarle, colpendole con bastoni alla schiena», si legge nel dossier. In effetti le dipendenti spesso non sono qualificate, non hanno ricevuto una formazione. Produrre ad esempio 120 pezzi all'ora diventa problematico, e messe sotto pressione finiscono per danneggiare gli stessi capi di abbigliamento che stanno confezionando.

Oltre ai problemi con la manodopera bisogna anche pensare a come far uscire i prodotti dal Paese. Hawassa è molto distante da Addis Abeba, e si trova addirittura a 1.000 chilometri da Gibuti, il porto commerciale più vicino. Sarebbe stato preferibile allestire un parco industriale più vicino al mare, ma il partito al potere ha dovuto e voluto accontentare vari interessi. La Cina da parte sua ha giocato la carta di una linea ferroviaria di 750 chilometri che collega la capitale etiope a Gibuti.

L'infrastruttura, progettata e realizzata da un'azienda di Pechino, è costata quasi 4 miliardi di dollari, ma il trasporto merci non è ancora iniziato. La linea infatti viene bloccata giornalmente da quei contadini truffati negli espropri. «Una soluzione la troveremo, vedrete», chiosa Zhang.

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