Una «madre» quarantenne, con il figlio di sette mesi al collo, ha rapinato quattro banche. È stata catturata, tenuta tre giorni in carcere con il piccolo e infine agli arresti domiciliari. Sostiene, per difendersi, di stare attraversando un periodo di difficoltà economica, di non avere un soldo neppure per i pannolini e di non poter rinunciare all’idea di andare in pizzeria con un’amica senza fare una figuraccia. Ha preferito quindi rubare, usare la sua creatura come scudo e poi vittimizzarsi. Piange e chiede indulgenza. Sembra convinta di non aver perso la faccia, come - secondo lei - sarebbe capitato col portafogli vuoto davanti all’amica o sottraendosi, con qualsiasi scusa, all’uscita mondana già organizzata.
Ecco, questo è il genere di madre funesta, che sta trasferendo nella nuova generazione quel seme velenoso già forse piantato da sua madre e allignato vigorosamente in lei. Che non solo non si vergogna dell’orrida malefatta, ma ha il coraggio di parlarne, addirittura chiedendo alla giornalista di usare una sua foto in posa e non quella fissata dalle telecamere della banca.
C’è una fetta della generazione di trenta/quarantenni che umilia e disonora i propri coetanei. Sono i nati in quel decennio, peraltro formidabile, degli anni Settanta nel quale la società era come fosse spaccata in due: da una parte la violenza delle Brigate rosse e la falcidie di giovani vite e grandi persone dell’epoca, dall’altra l’ubriacatura della mondanità, la moda, il potere. Nel frattempo i giovani nati venivano lasciati, contemporaneamente, alle suggestioni dell’odio e del consumismo, della discoteca e dell’impegno politico, di una vacanza intelligente o di un viaggio esotico. E sottolineo «lasciati», non educati; infatti in quegli anni l’unica educazione che si riteneva indispensabile impartire era quella sessuale. Del tutto scollegata dalla formazione dei sentimenti, del carattere, dei valori civili. E la scuola piegava la testa, concedendo migliaia di sei politici agli asini e arroganti figli dei genitori autoderesponsabilizzatisi. Che poi hanno prodotto figli drogati, anoressici, accidiosi, invidiosi, incapaci, sessualmente inadatti o maniaci. Tutti malati di assistenzialismo e oggi sulle spalle di chiunque: i genitori «devono» mantenerli, lo Stato «deve» dare un lavoro, gli altri «devono» capirli, giustificarli, aiutarli.
Questa disgraziata madre rapinatrice è figlia di quel periodo spensierato e drammatico, in bilico tra il piacere e la morte, segnato dall’impegno di molti e dall’inutilità esistenziale di troppi.
Dice che non ha soldi, ma non cerca un lavoro e, intanto, spende soldi per i tatuaggi, le cene con le amiche, per un cocker (ma perché non ha portato lui come ostaggio delle rapine? Gli animalisti sarebbero insorti molto di più degli incuranti servizi sociali), i cd della Minogue, il vino bianco e un divorzio.
Si definisce «ingenua e un po’ brilla», tentando di banalizzare la bieca strumentalizzazione del bimbo, l’odiosa ruberia dei soldi altrui e la sua capacità di delinquere. Intanto vuole tutto e non dà niente a nessuno, neppure il rispetto e la protezione alla creatura che ha partorito. Vuole la comprensione e, se possibile, l’assoluzione. Nell’attesa, come fanno in tanti, immeritevoli e viziati dall’elemosina altrui, non mi stupirei se rivolgesse una pubblica, possibilmente televisiva, richiesta di colletta, sempre sfruttando il figlio e i suoi bisogni di povera disoccupata, ma penalmente creativa.
Purtroppo, di persone buone e solidali ce ne sono tante, ed è facile rapinare le loro tasche usando come pistola un piccolo di sette mesi.
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