Oggi si saprà. Si saprà se la mela è avvelenata o se è velenosa. Cambiando appena l’aggettivo cambiano la cronaca e la storia di un’azienda e, insieme, la vita di un uomo. Steve Jobs è l’uomo. Steve Jobs è l’azienda. La mela, appena morsicata, è la Apple che oggi chiama in conferenza i suoi «sviluppatori» ai quali lo stesso boss si era rivolto, il quattordici di gennaio di questo stesso anno, scrivendo una lettera per informarli sulla propria salute: «Team», così si legge, non «Amici», «Colleghi», «Fratelli», no, team perché la squadra è il senso giusto.
Steve Jobs, dunque, sta dentro il solito mistero, la sua malattia, il cancro al pancreas, sembra debellato; la crisi ormonale è invece più difficile da disciplinare. A cinquantaquattro anni Jobs sa che la sua fortuna può trasformarsi in polvere, sa che l’azienda che è arrivata a esibire una liquidità di diciotto miliardi di dollari e di zero debiti, potrebbe andare incontro a una volatilità non prevedibile da nessun computer, da nessun iPhone, nemmeno dagli stregoni di Borsa. Eppure agli americani questo sembra interessare: quanto potrebbe perdere l’Apple se Jobs si ritira, se Jobs muore, se Jobs sparisce senza dare più notizie. E ancora, come se non bastasse: quanto potrebbe invece incassare, lievitando nel listino, la stessa azienda, se oggi zio Steve si presentasse nello splendore del suo nero totale. Secondo usi e costumi, nel vero senso della parola. Chi lo può dire? I Bookmaker appunto che altro non cercano. Mister Jobs ne approfitta. Lui stesso può scommettere sulla propria vita che significa la vita dell’azienda: se si presenta e le azioni salgono ci guadagna, se non si presenta il titolo perde e quindi perde anche lui, ma magari è una perdita calcolata, voluta, cercata per cambiare strategie e uomini, quindi vincere comunque. Può giocare da angelo e da demone, ridendo e piangendo, fregandosene del mondo che attende e freme. Quando nacque la sua prima figlia, Lisa, avuta da una relazione con la compagna di università a Cupertino, Steve Jobs si rivelò più cinico e baro di un ladro al cimitero: per due anni si ostinò a non riconoscere la figlia, arrivò addirittura a presentare in tribunale un documento nel quale si certificava l’incapacità a generare del presunto padre, dunque uno sterile accertato non poteva mai e poi mai avere creato la pupa di nome Lisa.
Il fatto è che in seguito l’incapace generatore produsse altri tre figli dal che si può dedurre quanto e come zio Steve giochi con le applicazioni, anche quelle della comune esistenza altrui. Ma per fare soldi questo non conta. Steve Jobs è tra i primi venticinque uomini più ricchi della Terra, nelle tecnologie non ha mai tentato di presentare estratti di sterilità, anzi ha prodotto più di un coniglio in calore, siamo circondati da Mac e affini, qualcuno obietta che se invece di farli costruire in Cina li allestisse negli United States o in Europa allora sarebbe anche un filantropo cosa che invece sa fare il suo rivale Bill Gates. Ma a zio Steve l’amore per gli altri non interessa, deve badare al proprio corpo che ha perso chili, deve curare il diabete subentrato al tumore e controlla sul suo iPhone quanti dollari i suoi connazionali stanno puntando sulla fine della Apple e del suo boss. Tanto per dire come gli americani tengono in conto la dignità dell’esistenza, il suo valore, segnalo che molti Stati stanno richiedendo l’abolizione della pena di morte. Finalmente, ho pensato e voi penserete. Finalmente il nuovo millennio segna la svolta, basta con la sedia elettrica, basta con dead man walking. Ingenui, romantici, idioti pure. Noi. La richiesta dei governatori è figlia della crisi economica che attanaglia il mondo, le banche, le borse e dunque i suddetti politici hanno fatto due conti e scoperto che l’esecuzione capitale costa troppo, è doveroso risparmiare, non tanto la vita di un uomo, pur se detenuto, ma le uscite a bilancio.
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