Cultura e Spettacoli

Con le magie di Muti un «thriller storico» diventa pura sinfonia

SalisburgoSi arriva a Salisburgo a Pentecoste, e sembra tutto normale, come un’antica tradizione: ci sono in giro grandi manifesti con scritto «Napoli» e con la faccia di Muti ancora più grande, si ascolta musica napoletana, cantata e suonata da giovani italiani, si fa festa. E invece è una cosa creata da pochi anni, un sogno temerario che Riccardo Muti covava da ragazzo: far conoscere al mondo la gloriosa scuola che nel mondo dilagò trionfale per tutto il Settecento, e riproporne le bellezze sconosciute. Ci è riuscito, nell’ambito del festival più prestigioso dell’epoca moderna, guidando a rinnovarle e a riviverle le giovani generazioni, fondando l’orchestra Cherubini, lavorando con il Ravenna Festival. E offrendo una boccata di speranza che la storia ci insegni veramente qualchecosa.
Negli anni scorsi, l’opera al centro delle esecuzioni era buffa; gradevole ma in un filone già valorizzato dai teatri, e gli spettacoli portavano una cifra bonaria un po’vecchiotta, teatralmente non molto interessante. Quest’anno, si è aperto invece un grande squarcio di luce nella conoscenza dell’assai meno nota opera seria. Come si è aperto il sipario sulla splendida scena di Margherita Palli, con le colonne e gli archi ripetuti in direzioni contraddittorie, composti come in un ammaliante quadro astratto eppure tali da creare spazi fantasiosi, si è sentito un confortante salto di qualità: Quando poi si è capito che il linguaggio dell’opera chiedeva a ogni aria spericolatezze a ogni cantante, è nato un grande rispetto per la compagnia di ragazzi che giocavano la loro prima fama e la loro faccia vittoriosamente.
L’opera era il Demofoonte di Jommelli, su libretto di Metastasio, del 1770. La formula metastasiana era consueta: intrecci abilissimi, veri thriller d’intrigo storico in trame irraccontabili: come qui, scambi di personaggi e di figli, equivoci drammatici, disperazioni, in vicende che convergono verso agnizioni e consolazioni, sbrigate in una rapida declamazione cantata che si blocca per lasciar spazio a sentimenti intimi personali: in questi punti il personaggio fa decollare l’aria, una melodia distesa che presto ripete slanciandosi in frastagliate variazioni. Non veri duetti, non pezzi d’insieme. Una sfilata, che appassionava per la sfida di bravura, e insieme un corteo di solitudini. Negli anni di Demofoonte la formula era già logora: l’Europa aveva sottopelle l’era delle rivoluzioni, il melodramma prendeva coscienza della necessità di conflitti all’interno del linguaggio musicale, insomma si apriva il tempo non soltanto di Gluck ma delle nobili eloquenze di Piccinni, di Sarti, dell’ultimo Cimarosa; e presto del Romanticismo.
Jommelli era troppo legato al maestro e amico Metastasio per rinnovare le forme dell’opera: ma all’interno delle arie, preannunciate da dense introduzioni, portava una gran voglia di drammaticità e d’azione, e così tutto il suo tessuto musicale è pieno di contrappunti e di colori e la stessa bravura del canto porta i crismi del rovello legato strettamente all’azione.
Muti ci ha creduto moltissimo, e i ragazzi l’hanno seguito: il pubblico, che una volta bisognava conquistare portandolo dal clamoroso chiacchiericcio alla gara fra cantanti, è stato invece impavido e concentrato, e ne ha ricevuto in compenso la classica bellezza a cui le fantasie intricate e bizzarre della trama, gli stati d’animo contenuti e solitari, approdano continuamente. I cantanti, vincitori sulle difficoltà e contagiosamente dediti a Iommelli & Muti, erano due controtenori dalle possibilità strepitose, Antonio Giovannini e Valer Barna-Sabadus, la patetica e determinatissima José Maria lo Monaco, la passionale ed eccellente Maria Grazia Schiavo, e l’ormai affermatissimo Dmtiry Korchak, che se starà attento nella coerenza del repertorio potrà darci intuizioni vocali e interpretative imprevedibili e straordinarie, e le efficaci Eleonora Buratto e Valentina Coladonato,
Sulla linea di Muti, che riassume tutto nella bellezza, era anche la regìa aristocratica di Cesare Lievi, che, senza troppo preoccuparsi di spiegare gli eventi, resi ancora più impenetrabili dai confusi costumi di Marina Luxardo, creava immagini bellissime, aiutato dalle luci di Gigi Saccomandi meravigliose nella trasparenza e nei contrasti.

Da bravo storico e critico dell’opera, vorrei spiegare perché con queste scelte non si riesce a comunicare molto al pubblico d’oggi. Ma come faccio, con tutta quella gente che se ne resta lì alla fine ad applaudire e a gridare così a lungo e se ne va via felice sotto l’acquazzone?

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