Caro Direttore, l'esito favorevole del processo a Giovanni Novi (assoluzione di 12 capi d'imputazione su un complesso di 13) con una lievissima condanna a 2 mesi e ad una multa irrisoria fa giustizia su una questione di ambito portuale che può essere definita inquietante. Ricordo che proprio sulle pagine del Giornale sono stato fra quelli che hanno dubitato fin dall'inizio delle presunte responsabilità di Novi (che tra l'altro mi trasmise i suoi ringraziamenti proprio per mezzo del nostro quotidiano). Questo lo segnalo non per vantare meriti particolari ma perché fin dall'inizio le accuse apparivano campate in aria perfino a me che non conoscevo nemmeno Giovanni Novi di persona; aggiungo che non sono uno specialista di sottili dinamiche portuali e, diciamolo pure, non è che io possieda un eccezionale fiuto politico. Non mi posso nemmeno dire particolarmente fortunato nelle scommesse. Se ci ho azzeccato è perché credo che la nostra città non è solo il luogo dei veti politicamente incrociati ma che questo tipo di politica sbagliata che non aiuta a progredire - perché si traduce in una produzione stanziale di energie negative che bloccano (o riducono di molto) ogni prospettiva di rilancio -, si sia estesa anche a determinate inchieste giudiziarie. Lo pensavo allora e lo penso anche adesso, pur rallegrandomi che Giovanni Novi sia stato assolto in giudizio (e, mi auguro che lo sia ancora nel futuro prossimo anche per il tredicesimo capo di imputazione). Questa assoluzione forse indurrà gli inquirenti ad essere un po' più cauti nel promuovere azioni giudiziarie. Sono convinto che molti magistrati nel nostro paese e nella nostra città, prima della caduta del Muro di Berlino, fossero angustiati dal sospetto che «ai piani alti» del Palazzo di Giustizia si tendessero a frenare le inchieste scomode nei confronti di determinati politici e di persone di sottogoverno loro vicine. È noto che all'inaugurazione degli anni giudiziari di allora un numero ben preciso di magistrati non partecipava proprio, attuando una precisa forma di protesta. Tuttavia con il sopravvenire di Tangentopoli e con gli anni successivi si è passati all'estremo opposto. Ovvero prima c'era un robusta opera di pompieraggio e poi si è passati dalla parte degli incendiari. Ora, sappiamo benissimo, che ognuno di noi (rivestendo posti di responsabilità) o si autocostringe ad avere in permanenza la mente lucida e l'intelletto accorto di fronte alle ambiguità presenti nelle situazioni in esame, o finisce per vederci quello che ci vuole vedere. Donde l'inevitabilità dell'accusa di pregiudizio nei suoi confronti.
L'ordine giudiziario (per quel che attiene soprattutto i magistrati inquirenti) deve trovare un proprio equilibrio interno. Non può essere altrimenti: perché se da un lato la libertà della magistratura va garantita, non è pensabile che quest'ultima con la propria (garibaldina) intraprendenza sconvolga il normale andamento della vita civile sotto l'aspetto economico e sociale. Certamente non si può tutelare chiunque rivesta incarichi pubblici dalle sortite della Magistratura, rinviando quindi le indagini civili e penali alla fine del mandato ricevuto, però è altrettanto vero che certi incarichi sono troppo delicati sotto il profilo economico perché si possa interromperne l'azione normale sulla base di poco convincenti carichi di indizi e prove. Mi chiedo a questo punto se non ci fosse più saggezza (non dico più onestà) nell'antica Repubblica di Genova, laddove a coloro che avevano ricoperto determinate magistrature veniva poi fatto alla scadenza del mandato una sorta di «esame finestra» per capire come si erano comportati. Oggi tra l'altro attraverso indagini fiscali appropriate si potrebbero controllare i patrimoni esistenti prima dell'incarico ricevuto e la loro consistenza una volta che tale incarico fosse stato espletato. E appunto, uno sarebbe tenuto a dover giustificare il senso delle plusvalenze accumulate, oltre i risparmi possibili sullo stipendio man mano ricevuto. È vero: gli aristocratici detentori del potere e dei diritti politici nell'antica Repubblica genovese adottavano preferibilmente la condotta del «vivi e lascia vivere» e non si pestavano troppo i piedi reciprocamente. Va però detto che non si trattava di un'aristocrazia parassitaria perché essa con il proprio lavoro concorreva all'accrescimento non solo della ricchezza personale ma anche al benessere di tutta la Repubblica. Questa idea, tutta a noi contemporanea, di fare le bucce su ogni cosa alimentata da un moralismo che sfiora insistentemente la meschinità alimentata, a sua volta, dall'invidia, appare un fenomeno preoccupante dei nostri tempi.
*docente di Storia e Filosofia
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