Magnifica è l’attesa di chi vuole riscoprire la vita

A lzi la mano chi non si è commosso - intendiamo, commosso à la Nabokov: brivido estetico lungo la schiena e inatteso sobbalzo, nel cuore, di certe verità dimenticate - quando, arrivato in fondo al primo capitoletto di Un ermellino a Cernopol di Gregor von Rezzori, non ha incontrato, lasciate cadere quasi con noncuranza in una sovraeccitata atmosfera da osteria, queste parole: «Nessuno fa mai altro che andare incontro alla propria morte. Così egli non ode nemmeno, in lontananza, il richiamo nostalgico e lamentoso dei treni che lasciano la città di Cernopol per gettarsi solitari nella campagna perduta, verso un’altra realtà solitaria e a sé stante, un’altra realtà perduta e rimpianta. Perché ciascuno è perdutamente legato alla propria solitudine, gli uomini come le città».
Frequentare i libri di Rezzori significa lasciarsi coinvolgere da quella malinconica e surriscaldata atmosfera dell’Europa orientale tra le due guerre, periodo durante il quale Gregor Arnulph Hilarius d'Arezzo (vero nome dello scrittore, nato a Czernowitz nel 1914 da genitori di origine italiana e morto a Firenze nel 1998) condusse una «vita d’artista» tra le più intriganti che la letteratura abbia registrato. Fu giornalista, autore di programmi radiofonici, produttore di film, attore, esperto d’arte, romanziere: tutto sullo sfondo di quella Repubblica di Weimar che Christopher Isherwood ha raccontato così bene nei suoi libri migliori, ma ancor più Rezzori stesso in Edipo vince a Stalingrado. Ma c’è, accanto a questi capolavori, anche il Rezzori «italiano»: quello in là con gli anni, meno scanzonato e più accorto nella gestione della propria immagine. Guanda ha appena mandato in libreria L’attesa è magnifica (pagg. 288, euro 22), in coincidenza della IV edizione del premio Vallombrosa - Gregor von Rezzori, patrocinato dalla vedova Beatrice von Rezzori e appena conclusosi.
Si tratta di un libro - letteralmente - senza virgole, senza interruzioni, una vera «canzone senza pause»: come la vita. In queste pagine, l’ottantenne Rezzori è convalescente nella sua villa di Santa Maddalena in Valdarno (oggi diventata una fondazione «buen retiro» per scrittori: finora la baronessa ne ha ospitati 145). Come sempre, anche nella malattia, la soluzione di Rezzori è la scrittura, ovvero un’ultima discesa «negli inferi prodigiosi del mio io», prima di morire: meditazioni e ricordi si intrecciano tra un intervento chirurgico e l'altro, tra un delirio d’anestesia e ombrosi pomeriggi estivi nella sua «torre in Toscana», tra memorie di viaggi (India, Romania) e di amici scomparsi prematuramente (Bruce Chatwin, Ugo Mulas).

«Da razionalista e cultore del differimento epocale non ho visto nel mio corpo nient'altro che materia suscettibile di sollecitazioni meccaniche» - scrive Rezzori - ma allo stesso tempo, poche righe dopo, si capisce che non è così, poiché una giovane ragazza, Scintillina, gli mostra che «lo spirito si accende nell’atto di contemplare il volto: solo in quell’istante può scattare quella che il collega Chamfort considera - accanto alle epidermidi che si sfiorano per la prima volta - la molla dell’amore: lo scambio tra due fantasie». Ciò accade anche in letteratura, nel momento in cui l’io dello scrittore - ma anche del suo lettore, entrambi «perdutamente legati alla propria solitudine» - fa pace (ma con stile) con la realtà.

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