La data prescelta per «lo spettacolo di fuoco della Compagnia All’Improvvisata» non è delle più felici: 11 settembre. Il titolo nemmeno: La morte e l’allegrezza. Dalle ore 19 di quel venerdì, e nei successivi due giorni, per entrare a Isola Dovarese «bisognerà pagar gabella». In cambio i visitatori saranno catapultati nel Medioevo, tra falconieri, arcieri, sbandieratori, trampolieri, giullari, maghi, fattucchiere, sputafuoco, e potranno anche assaggiare il «grande minestrone alchemico» scodellato in piazza.
Ma l’unica cosa che varrebbe davvero il prezzo del biglietto, in questo borgo antico della provincia di Cremona, è l’accesso al laboratorio di Luciano Sassi, che invece resterà chiuso. Ho avuto il privilegio di entrarci, al numero 24 di via Roma, e in tre ore m’è passata davanti la Storia. Ho visto l’ultima lettera scritta nel 1506 da Andrea Mantegna a Francesco II Gonzaga, nella quale il pittore, ormai morente, assicura che non ha «sminuito quel poho de ingenio che dio», scritto con la minuscola, «mha dato» e si lamenta che «da niuna parte già molti mesi no posso aver un quatrino». Ho visto la sottoscrizione autografa di Matilde di Canossa su una donazione del 1109. Ho visto il monogramma di Federico Barbarossa tracciato esattamente 50 anni dopo dal suo cancelliere: «L’imperatore non si sporcava certo le mani a scrivere, con l’indice sfiorava soltanto il sigillo sulla pergamena pronunciando la formula “Io l’ho fatto”».
Ho visto 50 volumi di sentenze, dal 1500 al 1700, in processi celebrati sulla terraferma dalla Serenissima: 6 anni per l’omicidio di un uomo con un colpo di stocco, pena all’apparenza mitissima, ma che diventa infernale scontata al remo sulle galee, con i ferri ai piedi, perché significava fare lì i propri bisogni e, se perdevi il ritmo di vogata, ti sbarcavano al primo porto, eri bandito per sempre dalla Repubblica Veneta, ti tagliavano o la punta del naso o quella delle orecchie affinché fossi riconosciuto come malfattore presso tutte le corti, insomma diventavi un reietto del mondo, e se per caso osavi riavvicinarti entro 15 miglia al territorio di San Marco venivi «catturato, appeso per cavezzo finché la morte non ti raggiunga e il tuo corpo smembrato in quattro parti esposto sulle mura della città».
John Ruskin diceva che i libri possono essere divisi in due categorie: i libri di un’ora e i libri di tutti i tempi. Sassi si occupa da una vita solo di quest’ultimi. Ma anche di pergamene, codici miniati, mappe, lettere antiche. Nato a Milano nel 1959 (è ritornato nel 1980 al paesello da dove il padre mugnaio, sopravvissuto al massacro di Cefalonia, emigrò per fame), sposato, divorziato, padre di tre figli, è il restauratore di fiducia degli Archivi di Stato di Mantova e di Milano. Ha insegnato alla Statale i sistemi di conservazione dei materiali. Conosce i segreti per lavare, asciugare, stirare, ricostruire nelle parti mancanti e infine rilegare, come fossero nuovi, volumi divorati dai secoli, dall’umidità, dagli insetti. Nelle sue mani tutto si trasforma e nulla va perduto: alla fine del restauro consegna al committente le bustine trasparenti contenenti persino la polvere e le mosche trovate fra le pagine. «I registri degli archivi sono giacimenti archeologici incredibili. In pratica cancellieri e contabili ci vivevano sopra. Per cui dentro ci trovo la vita quotidiana: capelli, briciole di pane, fiori, semi di piante, ritagli di stoffa, appunti». E indica un reperto cinquecentesco appena incorniciato, un undicesimo comandamento scritto con calligrafia ornata: «Chi ama Dio con purità di core, vive felice e poi contento more».
Ma alle cure di Sassi vengono affidati soprattutto documenti di inestimabile valore: Carlo V, l’imperatore sulle cui terre non tramontava mai il sole, che rinnova l’investitura già accordata nel 1524 a Francesco II Sforza per il ducato di Milano e aggiunge all’autografo un pataccone d’oro da mezzo chilo; pergamene carolinge del IX secolo; testi liturgici, fra cui due lezionari del 1000; una Divina Commedia della fine del Trecento («stupefacente, Dante era morto da meno di 80 anni, in pergamena, con glosse scritte fin nelle pieghe, appartenuta a una famiglia nobile di Padova»); incunaboli del Fondo Alfieri; libri stampati sul finire del ’400 dal primo editore della storia, il tipografo Aldo Manuzio; manoscritti del Guicciardini. Ma anche epistolari di Gabriele D’Annunzio, Benito Mussolini, Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, fino al carteggio fra Tazio Nuvolari ed Enzo Ferrari.
Solo a consultare i faldoni provenienti dall’Archivio di Stato di Mantova, che contengono le testimonianze dei rapporti intrattenuti dai Gonzaga con i grandi della Terra, vengono i capogiri. C’è Enrico VIII, quello delle sei mogli, che descrive l’Inghilterra dell’epoca. C’è Torquato Tasso che annuncia d’aver «finito di comporre un bel libello che ho chiamato La Gerusalemme» e chiede al Duca di comprargli la carta per stamparlo. Ci sono lettere dei re di Francia, di Lucrezia Borgia, di Tiziano Vecellio, del Tintoretto, del Perugino, di Vittore Carpaccio, di Leon Battista Alberti, di Giulio Romano, di Pieter Paul Rubens.
Chissà quanto valgono. E chissà quanto si fa pagare per salvare questi tesori.
«La fregatura è che prima leggo e poi restauro, quindi perdo un sacco di ore. Prenda il carteggio di Mantegna. Sono 400 lettere. Quale potrebbe essere il loro valore commerciale? Vogliamo dire almeno 500 milioni di euro? Per 1.500 euro le ho sistemate. I soldi non m’interessano. Pensi invece al privilegio di potermi leggere sdraiato sul divano l’affreschista della Camera degli Sposi che chiede al Duca di prendere provvedimenti contro i vicini di casa perché lo molestano, di procurargli la legna da ardere per la nuora, di acquistargli un terreno del quale fornisce la piantina con le misure e i nomi dei confinanti».
Impagabile.
«Ho restaurato una lettera del navigatore Antonio Pigafetta che racconta al Duca il primo giro intorno al mondo, del quale fu uno dei 18 superstiti, compiuto con Ferdinando Magellano. E ho capito perché nel Sud delle Filippine oggi ci sono i musulmani: gli arabi, interessati al commercio delle spezie, avevano occupato quelle isole perché ci crescevano il pepe lungo, la cannella, la galanga».
La galanga?
«Eh, lo so, non la conosce nessuno. Si ottiene dal rizoma di alcune piante, ha un sapore bruciante, fortemente aromatico. Nei fogli di guardia delle decadi di Tito Livio stampate nel 1478, quelli bianchi che si mettevano all’inizio e alla fine di un libro per proteggerlo e che spesso si riempivano di scarabocchi e disegni, ho trovato questa annotazione: “Nel 1493 si incominzò a scoprir...”. È un testimone dell’epoca che racconta la conquista del Perù da parte di Francisco Pizarro. Fa i ritratti dei principi Inca. Ha visto uccidere Atahualpa, sterminare la popolazione, espugnare la capitale Cuzco».
La profondità storica toccata con mano.
«I ricchi del tempo sapevano che esisteva Amsterdam solo perché avevano i soldi per comprarsi un atlante. Ma l’orizzonte della gente non andava oltre i 20 chilometri. Era un mondo corto, lento, escluso dalla comunicazione. Se il viso del principe non fosse stato effigiato sulle monete, non avrebbero nemmeno saputo com’era fatto il loro sovrano. Anche per noi l’antichità si ferma al bisnonno. Più in giù del bisnonno ci sembra tutto uguale, cambia solo il vestito».
Da chi ha imparato quest’arte?
«Studiavo veterinaria perché sognavo di trasferirmi da Milano a Isola Dovarese a curare le mucche. Ma accadde un fattaccio: mia nonna Cleofe, che abitava a Monticelli Ripa d’Oglio, trovò in soffitta due antiche mappe su pelle d’uovo. Le portai alle benedettine dell’abbazia di Viboldone, un convento di semiclausura. Non avevo i quattrini per farle sistemare. “Se vuoi provarci da solo, t’insegniamo noi”, mi dissero. Mi fermai un mese. Alla fine mi mandarono da padre Sisto, un cistercense di Casamari che stava alla Certosa di Pavia. “Guarda e impara”, furono le sue uniche parole. Rimasi un anno. Le cose mi venivano facili, anche per via delle mie conoscenze di chimica. Fino all’alluvione di Firenze, 1966, il restauro in Italia non esisteva proprio. Quando uscii dall’Istituto centrale per la patologia del libro, il primo al mondo fondato nel 1938 su decreto del Duce, eravamo appena in 26 autorizzati dallo Stato a mettere le mani su queste rarità».
Che cosa rovina di più i libri?
«L’incuria. E lo shock termico provocato dai termosifoni».
Quali sono le fasi del recupero?
«Innanzitutto li fotografo. La numerazione spesso non c’è, perché riguarda noi, non loro. Per cui contrassegno le pagine a matita, le spolvero, taglio i fili di cucitura, le smonto. Si anatomizza il libro come si fa in un’autopsia. Seguono bagni di deacidificazione per bloccare i processi di degrado della carta e dell’inchiostro. Poi stendo i fogli ad asciugare su graticci. Sostituisco le parti mancanti con carta giapponese trasparente, in modo da riformare il perimetro della pagina. Ogni operazione dev’essere reversibile».
Durata?
«Da 15 giorni a 12 mesi».
Tantissimo.
«Quella che mi ha portato via più tempo è stata una Naturalis historia di Plinio il Vecchio, stampata su carta miniata da Nicolas Jenson nel 1476. Ci ho girato intorno oltre un anno, pensando e ripensando a un sistema per evitare di rovinare le miniature solubili in acqua. Alla fine ho rinunciato a 2.000 euro e l’ho restituita consigliando di tenerla così com’è».
Le è mai capitato qualche passo falso?
«Un’oleografia mi si è sciolta sotto gli occhi. Dopo 20 anni non ho ancora capito perché».
Ha un’assicurazione?
«Le pare che possa spendere 100.000 euro l’anno di polizza?».
Qual è il testo più antico che ha restaurato?
«Una cartola de acceptio mundio, un atto di dote longobardo, con cui Anstruda, figlia di Autareno, riceve dai fratelli Sigirad e Arochis tre soldi d’oro per aver sposato un loro servo. Una bellissima storia d’amore messa nero su bianco a Piacenza il 12 maggio dell’anno 712 e conservata all’Archivio di Stato di Milano. Che fa il paio con un reperto saltato fuori da un registro contabile quattrocentesco della Valtellina: l’esercizio di uno scolaro che sarebbe molto piaciuto al ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini».
Che genere d’esercizio?
«Ecco, legga qui: “Io grandamente amarìa el maestro se esso batesse me”. Un alunno che si lamenta perché l’insegnante non lo picchia abbastanza, ci pensa? E traduce la frase anche in latino, o quasi: “Ego magnopere amarem magistrum si ipse napularet me”. Perché il bene che ti vuole il maestro dipende da quante legnate ti dà sulla schiena per raddrizzarti. Le tombe non potrebbero conservare meglio dei registri. C’è dentro una storia parallela che non è rintracciabile al cimitero».
La scoperta più emozionante?
«Due anni fa. Stavo restaurando una mappa strapubblicata e strastudiata del Polirone, il millenario monastero di San Benedetto Po collegato con le abbazie di Cluny e di Montecassino, dove volle essere sepolta Matilde di Canossa. A un certo punto noto cose che non mi convincono. L’occhio che vede altro, mi spiego? Come nella Sindone. Un re seduto, un cavaliere armato, uno spadaccino... Otto figure inscritte in altrettanti rettangoli, intuibili soltanto con una luce tangente. Smonto la tela di rinforzo che era stata posta dietro la pergamena, metto a bagno, sciacquo. Ora tutto mi è chiaro: un mazzo di carte da gioco. Piegata come un tovagliolo, la pergamena fu probabilmente appoggiata su una matrice xilografica che serviva per stampare le carte, poi vi fu messo sopra dell’altro materiale. Così, per compressione, in 150 anni i semi di spade si sono impressi senza bisogno di inchiostro».
Le piacerebbe mettere le mani anche sulla Sindone?
«No, l’hanno toccata in troppi. Però ho avuto occasione di osservarla bene, da vicino, senza nessuno intorno. E mi ha molto, molto, molto impressionato. Molto, molto. Le confesso che certi falsi sarei in grado di farli. Ma una cosa del genere è praticamente impossibile. Non me la so spiegare. Dipingere un pezzo di tela? So che problemi dà la tela, non puoi raggiungere quella nitidezza. E poi le sostanze coloranti naturali che si usavano dal ’500 in giù sarebbero state assolutamente inadatte».
Come le sembrano i libri di oggi?
«Mi sembrano brutti, anche i più sontuosi. Gli editori nemmeno sanno che esistono accurati studi sulla proporzione dei bianchi. Dovrebbero leggersi il saggio del professor Giorgio Montecchi su come nasceva un libro nel Rinascimento».
Adesso sono in arrivo i libri digitali. Negli Usa gli ebook hanno avuto un boom del 228%.
«Ma non hanno futuro. E le note a matita? Io i libri devo segnarmeli».
Ogni giorno in Italia escono 170 nuovi libri, più di un terzo dei quali non vende neppure una copia. Farà fatica ad avere qualche erede fra due secoli.
«Quando entro alla biblioteca nazionale Braidense di Milano mi chiedo sempre quanti dei 900.000 volumi ivi custoditi sono stati letti. Mi capitano in mano libri mai aperti. Abbiamo perso perfino il gusto della corrispondenza. Spariti i carteggi, che cosa resterà dei rapporti fra gli uomini? Gli Sms?».
Leo Longanesi diceva che l’intellettuale è un signore che fa rilegare i libri che non ha letto.
«Ammetto: ho fatto anche dei libri finti. Di legno, con i dorsi di pelle dorata e antichizzata. Me li chiedevano certi industriali per i loro salotti».
Oliviero Toscani dice che i libri servono per sedercisi sopra.
«Anche. Ma per fortuna non solo».
Camilla Cederna diceva che molti scrittori scrivono libri che essi stessi non leggerebbero mai.
«Gli scrittori cercano di reggersi in piedi. Ma come si fa a rimanere eterni? Un’idea grande ce l’hai una sola volta nella vita. Dopo, diamo tutti da mangiare alla fame».
(461. Continua)
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