Mai un taglio serio: così è esploso il debito

Come si arriva ad avere un debito pubblico di 1.800 miliardi di euro? E soprattutto, come ci si arriva, con le entrate fiscali che crescono continuamente (tranne nell’annus horribilis 2009, a causa della crisi)? La risposta è semplice semplice: cresce sempre, anno dopo anno in maniera inesorabile, la spesa pubblica. E non quella per gli interessi sul debito, che negli anni passati si è ridotta grazie al calo dei tassi d’interesse internazionali. Il nodo scorsoio della finanza pubblica italiana è la spesa corrente. Sommando tutte le voci, alla fine del 2009 lo Stato ha speso circa 798 miliardi di euro, ricorda l’ultima Relazione unificata del Tesoro. Per la spesa corrente - quella che serve per pagare gli stipendi pubblici, le pensioni, i trasferimenti agli enti locali, la sanità - sono stati spesi oltre 661 miliardi; a questi vanno aggiunti 71 miliardi e rotti di spesa per gli interessi sul debito pubblico. E così siamo a quota 733 miliardi.
Dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, tutti i governi che si sono succeduti (ben ventiquattro) si sono impegnati, a parole, a ridurre la spesa pubblica e limitare il deficit. Nessuno ci è riuscito, anche se qualche governo è andato meglio di altri sul fronte dei conti pubblici. Perché questo fallimento storico? Anche qui la risposta è semplice: nessuno ha avuto la forza politica di attuare riforme strutturali tranne, ed è davvero paradossale, un governo che non aveva maggioranza. Autore della magia è stato Lamberto Dini che, nel ’95, ha condotto in porto la riforma delle pensioni che, in prospettiva e con l’aiuto di interventi successivi, ha stabilizzato il sistema della previdenza.
Fino all’inizio degli anni Novanta, i governi aumentavano le tasse. Nel primo numero del Giornale del 25 giugno 1974 si leggeva, in prima pagina, questo titolo: «Ecco quanto pagheremo con le nuove tasse». Dopo la guerra del Kippur l’Europa, e l’Italia, erano in piena austerità. Il presidente del Consiglio Mariano Rumor e il suo ministro delle Finanze Mario Tanassi pensarono bene di aumentare le imposte per dare al Paese il colpo di grazia: il ’75 fu, praticamente, un anno di recessione. Il cattivo andazzo fiscale continuò, anno dopo anno, per raggiungere vette himalayane nei primi anni Ottanta. Uno dei campioni indiscussi del dissesto fu Giovanni Goria, ministro del Tesoro nel governo Craxi, che si distinse nel 1986 negando per mesi la tassazione dei Bot, per poi annunciarla dicendo: «Tanto non cambia nulla». Per la faccia tosta dimostrata, e in riparazione delle vignette che lo ritraevano con un lungo naso alla Pinocchio, fu premiato con la presidenza del Consiglio.
Nel 1980 il terremoto sconvolse l’Irpinia, per poi travolgere i conti pubblici: in una dozzina d’anni, la legge 219/1981 costò qualcosa come 50mila miliardi di vecchie lire. Fatti il cambio con l’euro e la rivalutazione monetaria, la manovra da 24 miliardi varata martedì notte dal governo è, in confronto, acqua fresca. Ma se il sisma e le sue conseguenze, almeno, rappresentavano emergenze reali, il resto della spesa serviva di fatto a comprare voti. Il risultato: per la prima volta, nel 1983, la spesa pubblica superava il 50% del prodotto interno lordo. Nel 1990 aveva raggiunto il 53,59% del Pil, e nel ’93 toccava il massimo storico del 57,34 per cento. Questo significa che per ogni cento lire di ricchezza nazionale, poco meno di 58 lire se ne andavano in spesa pubblica.
Un altro annus horribilis, il 1992, segna la fine delle manovre basate sulle sole tasse, e si incomincia a tagliare la spesa. Ma si ratta di tagli episodici, non strutturali, talvolta casuali. Giuliano Amato, presidente del Consiglio, vara una manovra «di guerra» da oltre 90mila miliardi, dove i tagli valgono 42mila miliardi. Ma i tagli evaporano, le tasse restano: l’imposta straordinaria sugli immobili (Isi) si trasforma in Ici e resta in vigore sino all’altr’anno, quando Berlusconi la elimina, almeno sulla prima casa. Ciampi nel ’93 cambia la composizione della sua manovra: su 31mila miliardi, 27mila sono di tagli. Così Berlusconi l’anno dopo: 48mila miliardi la manovra, con un 60% di tagli di spesa, ridotti al 50% durante l’esame parlamentare.
Ci siamo avvicinati ai giorni nostri. I governi dell’Ulivo ritornano alla tassazione con la revisione delle aliquote Irpef operata da Prodi e Padoa-Schioppa, mentre finisce all’Inps il «Tfr». Il ministro del Tesoro Domenico Siniscalco, tecnico voluto da Berlusconi al posto di Tremonti, s’inventa la «regola del 2%», un meccanismo automatico che dovrebbe impedire aumenti incontrollati di spesa pubblica, e il «decreto tagliaspese», una sorta di blocco per evitare sforamenti eccessivi di bilancio. Il risultato? Nel 2006 la spesa corrente lievita a 656 miliardi di euro, nel 2007 a 685 miliardi, nel 2008 a 716 miliardi, nel 2009 a 733 miliardi.

Quest’anno dovrebbe raggiungere i 746 miliardi, nel 2011 arriverebbe a quota 763, nel 2012 a 786 miliardi di euro. E tutto questo, nonostante le mille e una pensata delle ultime manovre economiche targate centrosinistra e centrodestra.

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