La maldestra semina di Prodi finirà con un raccolto amaro

Penso che Romano Prodi oltre al panettone di questo Natale riuscirà a mangiare la colomba di Pasqua. Potrà così festeggiare anche l’anniversario della cosiddetta vittoria conseguita nelle elezioni del 9 aprile scorso, tanto dubbia che le competenti giunte delle Camere non hanno potuto sottrarsi alla decisione di procedere ai controlli reclamati dall’opposizione. Dubito invece che ballerà un’altra estate a Palazzo Chigi. Ma anche se vi riuscisse, più che ballare egli potrà solo barcollare per cadere probabilmente come le foglie in autunno. Che è già stata per lui una stagione infausta, essendogli capitato proprio in autunno otto anni fa di interrompere la sua prima esperienza alla presidenza del Consiglio. Gli fu allora beffardamente fatale in una votazione di fiducia alla Camera la decisione di Irene Pivetti di restarsene a Milano ad allattare la figlia nata da poco, piuttosto che correre a Roma a salvarlo.
A dire la verità, neppure l’autunno appena trascorso è stato felice per Prodi, che ha varato e gestito la legge finanziaria in modo così maldestro da perdere molta parte del credito già scarso di cui godeva dopo aver formato il più pletorico e scombinato governo della storia repubblicana. Di fronte al quale brilla il ricordo dei governi balneari del povero Giovanni Leone negli anni Sessanta o di Giovanni Goria negli anni Ottanta. Luca Ricolfi, che non può certamente essere considerato un elettore di Silvio Berlusconi, scriveva impietosamente sabato scorso sulla Stampa commentando gli ultimi sondaggi: «Quel che è stupefacente non è che due italiani su tre non abbiano alcuna fiducia in questo governo, ma che ve ne sia ancora uno su tre che lo rivoterebbe».
Una verifica elettorale attende d’altronde Prodi in primavera con un turno amministrativo che riguarderà quasi undici milioni d'italiani. Immagino già i mal di pancia che avranno davanti ai risultati i partiti della maggioranza, specie quelli più grandi. Essi sperimenteranno sulla propria pelle i frutti avvelenati di un governo che ha camminato sinora al passo dell’estrema sinistra e difficilmente potranno continuare a coltivare il progetto della loro fusione perché il Partito Democratico potrà garantire ancor meno di prima la somma dei voti dei Ds e della Margherita. Piero Fassino del resto ha appena riconosciuto, o avvertito, dalle colonne del Corriere che «l’affanno del governo rende più difficile la costruzione del nuovo partito».
Già nella scorsa settimana il segretario dei Ds ha chiesto a Prodi di «cambiare passo», appunto. Ma è troppo precipitosamente arretrato rimangiandosi dopo una telefonata di protesta del presidente del Consiglio la richiesta insieme aggiuntiva ed esplicativa, che pure egli aveva formulato davanti al Consiglio nazionale del suo partito, di una «correzione di rotta sensibile e significativa».
Francesco Rutelli ha involontariamente detto la verità quando, con aria di scherno, ha concesso di definire «Topolino» la stagione delle riforme reclamata dalla Margherita, visto che Prodi non gradisce che sia chiamata «Fase 2».

In realtà, la montagna della cosiddetta Unione prodiana non potrà che partorire il classico topolino se e quando affronterà veramente le «scelte di fondo» sollecitate persino dal paziente Carlo Azeglio Ciampi, che ha appena salvato con altri quattro senatori a vita la legge finanziaria turandosi il naso, alla Montanelli.

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