Maledetti italiani

Ci siamo tutti divertiti con le sciocchezze del londinese Times su Noemi, la ragazzina che dice «papi» a Berlusconi. Spropositi del genere si spiegano con la forza dei luoghi comuni sull’Italia. Ogni corrispondente estero adotta i più diffusi nel suo Paese e perciò più apprezzati dai propri lettori.
Gli inglesi ci considerano due cose. Una, vigliacchi. Durante la guerra anglo-argentina per le Falkland (1982) a chi gli chiedeva come sarebbe finita, il ministro della Difesa britannico rispose: «Se negli argentini prevale il sangue italiano scapperanno e sarà una passeggiata, se prevale quello spagnolo sarà dura».
L’altra convinzione è che gli italiani siano lascivi e corrotti. Su questo è caduto Richard Owen, il corrispondente romano di Times, nell’attribuire la nota frase alla mamma di Noemi: «Spero che il signore (Berlusconi) faccia per mia figlia quello che 30 anni fa non fece per me: darle il successo in tv». Come si sa la genitrice si riferiva invece al Signore, ossia al Padreterno. Per spiegare l’equivoco basta entrare nella testa di Owen il quale, vittima del luogo comune, ragiona probabilmente così: penso da sempre, in sintonia con i miei connazionali, che la donna italiana in genere sia una poco di buono pronta ad affidare il suo futuro (o quello della figlia) alla tresca con un potente anziché ai propri meriti. Lasciva e corrotta, appunto. Di qui, la cantonata.
I pregiudizi sugli italiani mi riconducono a tre libri tedeschi letti negli ultimi tempi nessuno dei quali è ancora tradotto. Autori sono giornalisti-scrittori quarantenni i quali si dichiarano tutti innamorati del Bel paese.
Il titolo di maggiore successo in Germania è Maria, ihm schmeckt’s nicht! (Maria, a lui non piace!, Ullstein editore, 276 pagg.), di Jan Weiler, giornalista della Süddeutsche Zeitung (quotidiano bavarese), sposato con un’italo-tedesca. Il titolo fa riferimento all’esclamazione della nonna molisana della allora futura moglie (Sara), delusa perché Jan, il nipote acquisito, rifiuta di mangiare il panettone che a lui non piace. La nonna è piena di buone intenzioni ma invadente come tutti gli italiani e offesa perché il tedesco fa lo schizzinoso anziché abbandonarsi al rito del pasto, smodato e pantagruelico come sempre in Italia. L’ironia è di Weiler e vi dà un’idea del tono.
Il protagonista del romanzo è il padre di Sara, Antonio Marcipane, «gastarbeiter» oriundo di Campobasso, da 40 anni in Germania, sposato con una tedesca pazientissima. Jan conosce Antonio quando Sara, dopo due anni di convivenza, lo porta dai genitori perché chieda la sua mano. Un istante prima dell’incontro col futuro suocero, il fidanzato giornalista (ergo, esperto del mondo) si chiede tra sé: «E se non gli andassi a genio? Se, secondo l’antico costume degli avi, mi tagliasse il mignolo e lo spedisse, avvolto in una busta profumata alla mandorla, ai miei genitori per ricattarli? Se dovessi attendere gli eventi mezzo dissanguato in una cantina, mentre al piano di sopra la mia fidanzata ride con i compari?». Questo l’esordio.
Il resto del romanzo è un andirivieni automobilistico tra Germania e Molise di Jan con Antonio. Il giovanotto è affascinato dal suocero che è un simpatico furfantello, svelto di testa quanto approssimativo nel suo tedesco, dopo decenni di soggiorno in Germania. Gli propone di truffare l’assicurazione, trova ogni occasione per spillare soldi al prossimo, lo mette a parte in chilometriche conversazioni di una vita di espedienti e umiliazioni. Cita ogni due per tre le glorie nazionali Dante, soprattutto Machiavelli di cui ignora tutto. Eppure racconta nei particolari la stretta amicizia del «segretario fiorentino» (XV secolo) con Sigmund Freud (XX). Ha anche un’opinione netta su Silvio Berlusconi: «Un imbroglione, un ometto, un furfante. Gli italiani non amano la politica, amano il successo». In Germania, Antonio inghiotte dileggi, a Campobasso si dà arie da tedesco più evoluto dei concittadini.
Intorno a lui l’enorme parentado, i campobassesi, gli italiani in genere sempre in gruppo, divoratori di pastasciutta, caciaroni, seminudi, sudati, fondamentalmente buoni. Jan non sopporta le continue sieste dei Marcipane, i lettini di ferro pieghevoli della casa di Termoli sull’Adriatico che si richiudono su di lui ogni volta che ci si siede e sui quali però si risiede ogni volta con (pregiudizio per pregiudizio) tedesca ottusità, gli strusci sulla via principale per pavoneggiarsi e fare «bella figura».
La «bella figura» è, non solo nel racconto di Weiler ma anche negli altri due romanzi, la principale inclinazione degli italiani. Teniamo - a quanto pare - straordinariamente all’apparenza. Siamo selvaggi, pittoreschi, sgangherati ma nascondiamo questo ammasso dietro una parvenza da gran signori. Un notevole difetto per un tedesco che ha un detto sprezzante per questo genere di atteggiamento, oben hui und unten pfui: bello fuori, brutto dentro.
Il coacervo di luoghi comuni di Weiler è alla base del successo tedesco del suo libro. È esattamente quello che i suoi compatrioti desiderano sentire sugli italiani. Non per antipatia, ma perché li conferma nel pregiudizio. Non c’è da meravigliarsi che ne sia stato tratto un film che presto vedremo. Il ruolo di Antonio Marcipane è stato affidato a Lino Banfi che l’ha recitato in tedesco senza conoscerne una parola. Gli hanno traslitterato le parole sul gobbo e Banfi si è limitato a leggerle con l’accento pugliese così simile al molisano di Marcipane. Una prodezza col trucco: typisch italienisch.
Meno corrivo il romanzo di Stefan Ulrich, Quattro stagioni (titolo originale in italiano), sottotitolo: «Un anno a Roma», l’editore è sempre Ullstein, 298 pagg. Ulrich è l’attuale corrispondente romano della stessa Süddeutsche Zeitung. L’approdo a Roma era il sogno della sua vita perché è fissato con l’Italia dall’infanzia. Il racconto è divertente e documentato. L’impossibile traffico romano, l’estenuante burocratismo degli uffici. In quanto cittadini Ue, Ulrich e la sua famiglia, moglie e due figli, dovrebbero avere automaticamente il permesso di soggiorno. Scopre invece che non è così. O meglio, il funzionario gli dice: «Lei ne ha assolutamente diritto. Ma per ottenerlo formalmente deve fare domanda». Di qui, settimane di file negli uffici da un capo all’altro della città, tra motorini che ti piombano addosso e clacson a perdifiato. Lo Stato italiano - osserva l’autore - ha la pretesa di legiferare su tutto e i cittadini non distinguono più il lecito dall’illecito. Per uscirne, fanno di testa loro. È una delle ragioni del successo di Berlusconi. Oppressi come sono dalle regole, considerano la sua battaglia contro i giudici una loro personale vendetta.
Chi segue le corrispondenze di Ulrich sa che non ha simpatia per il Cav. In una delle ultime ha scritto: «Il premier con le sue scappatelle, il suo concetto patriarcale del potere, il mischiare la vita privata col ruolo pubblico, così come con i suoi attacchi sconsiderati alla giustizia, non potrebbe resistere neanche una settimana come politico in Germania». Ma i suoi lettori tedeschi lo considerano equilibrato. Uno che vive da anni a Milano, gli ha scritto riconoscendogli di essere tra i pochi che non giudica l’Italia per cliché e ha aggiunto: «Io non voterei Berlusconi, ma è e resta l’unico che gli italiani credono capace di fare le riforme».
Anche Ulrich, tornando al libro, è ovviamente un coacervo di luoghi comuni. Gli italiani, secondo lui, lo ritengono un asociale perché la domenica va in gita solo con moglie figli. Loro, invece, se non partono in carovana con parenti e amici per finire in qualche ristorante ad abbuffarsi, neanche si muovono. I pasti collettivi durano ore, sono un concentrato di colesterolo, sprofondano in un appisolamento universale. Più in generale, gli italiani hanno un concetto della famiglia allargata al quinto grado parentale. Si frequentano, si telefonano con gli immancabili cellulari, organizzano incontri, sparlano gli uni degli altri in un vaudeville da tribù africana. Scendendo nei particolari, Ulrich si stupisce che al telefono rispondiamo «pronto». Nella sua Germania, a quanto pare, si risponde invece col cognome così chi chiama sa subito se ha raggiunto l’interlocutore cercato. Non oso dargli torto ma mi sono spesso sentito rispondere da tedeschi «hallo», come «allo» dai francesi o, putacaso, «molim» dagli slavi. Ma gli italiani sono speciali per partito preso. Poi, c’è il solito culto dell’apparenza. Invitato al piano nobile dei suoi ricchi padroni di casa nello stesso palazzo dove abita lui, Ulrich è portato in giro come se visitasse Versailles. Fuga di stanze e saloni, alcuni chiusi a chiave. All’interno di questi, divani e poltrone avvolti in coperte protettive. Sono le sale riservate alle grandi occasioni per fare «bella figura». Ma, in tanto lusso, l’ascensore è antiquato e sferragliante, l’impianto elettrico dell’appartamento dove Ulrich vive e lavora salta di continuo, le condutture dell’acqua boccheggiano. È l’Italia: oben hui und unten pfui.
Il meglio scritto è l’ultimo romanzo della serie, Toskana für arme, (Toscana per poveri), Kindler editore, pagg. 333. L’autore è Uli T. Swidler, un ex giornalista che ha lasciato il mestiere per fare lo scrittore. Il suo protagonista è Max fuggito dalla Germania per una delusione d’amore e rifugiato in Italia da anni. Nonostante questo, ogni parola in italiano nel libro è sbagliata. Voleva andare in Toscana, ma mancandogli denaro sufficiente per una casa nel Chianti ha ripiegato su un rustico nell’Appennino marchigiano. Una Toscana per poveri, appunto, dove vivono altri connazionali, ma anche inglesi e stranieri vari. Max è un bravissimo uomo che ci ama molto, giudica poco e accetta le difficoltà di una landa selvaggia. I più antipatici sono gli ospiti non italiani, prepotenti e ottusi, sprezzanti verso contadini e semplicioni locali. Lui, invece, stringe amicizia e si mescola con un’umanità tra il troglodita e il medievale. Gli uomini sono tozzi, alti 1,62, diffidenti. Le donne dimesse, per antico costume obbedienti ai mariti ma con rabbie represse, parlano con le pecore, fanno formaggi e pessimi vini. I preti hanno ancora un notevole potere che gli deriva dall’antico Stato pontificio cui le Marche appartenevano. Le difficoltà burocratiche sono immense per ogni sciocchezza, ma aggirabili all’italiana. La vita tra gli abitanti è regolata dalla «bella figura», così nessuno cede all’altro e le liti sono continue. L’unica donna dei luoghi di cui Max potrebbe innamorarsi, se non avesse sempre in testa quella che lo ha deluso in Germania, è una tedesca di passaggio. Il romanzo è suggestivo, pieno di ginestre, pastorizia, dignitosa miseria, abbandono dello Stato.

Quando hai finito il libro, ti resta l’impressione che Max, nel cuore dell’Italia del Duemila, sia un Gulliver illuminato tra lillipuziani selvaggi.
Forse ci meritiamo di peggio, ma non di essere visti col paraocchi.

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