«Mamma Irène vive in quella valigia»

Questa è la storia di una valigia, una di quelle che passa dai nonni ai nipoti, di generazione in generazione. Solo che dentro questa valigia c’è un romanzo, e intorno a questo romanzo una storia, la storia di una figlia che riesce a salvare il testamento di sua madre, la testimonianza di una donna, una scrittrice, che non è sopravvissuta alla follia del suo tempo.
Denise Epstein, 81 anni, ha gli occhi stanchi da sopravvissuta. Guarda indietro, e rivede una donna di 40 anni con i primi capelli grigi e gli occhi cerchiati. Parla in russo a bassa voce con il marito, per non farsi capire. «È l’ultimo ricordo che ho di mia madre. Quella è stata l’ultima settimana che siamo state insieme. Lei scriveva senza sosta. Aveva capito che ciò a cui stava lavorando sarebbe uscito postumo. Aveva fretta. Il tempo che le restava era pochissimo. E lei se lo sentiva addosso».
Una Francia travestita da gendarme si è portata via Irène Némirovsky a soli 39 anni. Deportata ad Auschwitz. «Il nostro sogno è finito così. Pochi mesi dopo, le spie hanno fatto arrestare anche mio padre. Io e mia sorella siamo rimaste orfane. Abbandonate all’improvviso». Due bambine sole, rifiutate dalla nonna, in cerca di rifugio, e con una promessa da mantenere. Denise lo ha raccontato senza risparmiare nulla in Sopravvivere e vivere, da poco uscito per Adelphi. «Prima di partire mio padre mi prese da parte e mi disse: “Denise, ti lascio questa valigia. Dentro c’è un tesoro. Mi raccomando, non perderla. Tienila sempre stretta a te, qualsiasi cosa succeda, tu non lasciarla mai”». Denise ha obbedito, l’ha custodita ogni giorno, anche quando scappavano dai tedeschi di notte, saltando giù dai treni prima di entrare in stazione per fuggire alla Gestapo. Sono passati più di 70 anni. Denise ha trovato il coraggio di guardare nella valigia, e di leggere quel manoscritto lasciato dalla mamma. Era Suite francese, (Adelphi) il capolavoro della Némirovsky, l’autobiografia di una donna che si sentiva braccata, nascosta in campagna, stanca e disperata. Un testamento scritto fitto fitto su un blocchetto.
Quando avete aperto la valigia per la prima volta?
«Subito, perché dentro c’erano delle fotografie di mia mamma, di me e mia sorella con lei, con mio papà. Poi l’abbiamo chiusa aspettando che la legittima proprietaria tornasse. C’è voluto molto tempo prima di ammettere che non sarebbe più tornata. È stato il dolore più grande».
Quando ha capito che non l’avrebbe più vista?
«C’è voluto molto, moltissimo tempo per accettare la morte. Per anni, andando in giro per la Francia, ho pensato di incontrarla nel volto di un’estranea. Pensavo che avesse perso la memoria, che non si ricordasse più nulla. E prima ancora, subito dopo la guerra, per mesi io e mia sorella siamo andate all’Hotel Lutetia con i nostri cartelli in mano. Aspettavamo in silenzio, con gli occhi a scrutare ogni volto scavato. Ci eravamo promesse che non saremmo più tornate alla stazione Gare de l’Est. Lì sono arrivati i primi deportati. Ma quando ho visto quelle facce ho pensato che anche se i miei genitori mi fossero passati davanti non li avrei riconosciuti. Gli occhi di quella gente non avevano più niente di umano. Così non siamo più tornate alla stazione. Era troppo da sopportare senza una mano a cui aggrapparsi. Eravamo due ragazzine sole. E avevamo perso tutto».
E il quaderno? Quando lo ha scoperto?
«Non abbiamo letto il quaderno, non subito. Temevamo che fosse un diario intimo, privato. Abbiamo scoperto dopo che era un romanzo. Poi l’ho letto e mi sono messa a ricopiare tutto, parola per parola, senza tralasciare nemmeno le virgole. Ci ho impiegato due anni, una scrittura minuta, per non sprecare spazio. Una fatica enorme, e dovevo stare attenta che le mie lacrime non bagnassero l’inchiostro».
Non ha mai pensato di lasciare la valigia?
«No, assolutamente no. Per me è un oggetto sacro perché abbiamo aspettato per molto tempo che i legittimi proprietari tornassero. Nemmeno in pericolo di vita l’avrei abbandonata».
Che viaggio ha fatto quella valigia?
«Ha una storia lunghissima. Prima, quando apparteneva a mio nonno, ha fatto il giro del mondo, poi è andata nelle mani di mio padre e poi a noi. E viaggia ancora. Pochi mesi fa ha attraversato l’Atlantico per essere esposta in una mostra su mia madre a New York. Per fortuna è molto resistente!».
Che cosa le manca più di sua mamma?
«Mi manca ancora. Non l’ho avuta accanto durante l’adolescenza, non c’era nelle tappe fondamentali della mia vita. Mi mancherà sempre. Ogni giorno. Sopravvivere e vivere era un dovere che sentivo di avere. E oggi sono ancora qui e sono in piedi».
Quando ha capito che non l’avrebbe più rivista?
«Quando l’hanno arrestata io non ho capito nulla. Ero una bambina, avevo solo tanta paura. Ma non avevo certo realizzato che quella sarebbe stata l’ultima volta insieme. Ma neppure mio padre si rese conto fino in fondo. Quando poi lui stesso a sua volta sarebbe stato arrestato, tre mesi più tardi, era convinto che l’avrebbe ritrovata. E invece quando papà arrivò ad Auschwitz lei era già morta da due mesi».
Vostra nonna davvero vi ha chiuso la porta in faccia?
«Mia mamma e lei si detestavano. Non si parlavano da anni. Mia mamma adorava il padre ed è per questo che in ogni suo libro c’è un ritratto feroce della madre. Dopo la guerra mi sono ammalata, non avevo soldi per curarmi e la tutrice mi ha portato dalla nonna a Nizza. Lei nel frattempo aveva ritrovato l’appartamento e la sua fortuna. Abbiamo bussato alla sua porta non so quante volte. Lei non ha aperto. L’ho rivista da morta, aveva 100 anni. Ci siamo sbarazzate di tutti i suoi ricordi».
Che cos’è la memoria?
«È il bastone cui mi sono appoggiata. Per anni la vita mi è sembrata un regalo avvelenato. Conservare il ricordo di chi se ne è andato è stato fondamentale, non farlo sarebbe come ucciderli un’altra volta, sarebbe come dare la vittoria ai nemici.

Lavoro molto alla ricostruzione della memoria, e non solo per mia mamma che ha lasciato un’eredità letteraria, ma anche per tutti quelli che non hanno lasciato tracce».
Qual è stato il primo libro che ha letto di sua mamma?
«Il ballo. Quando lo ha scritto era davvero felice».

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