Mancino, l’eterno equilibrista dc che alla fine tutela solo i giudici

Probabilmente è il primo tiro Mancino della sua vita. La prima volta in cui il colosso di Montefalcione abbandona il passo felpato di democristiana memoria e scivola a gamba tesa: la magistratura è buona, la politica è cattiva, questo in sintesi il senso della sua ultima uscita. Forattini lo ha sempre disegnato come un mansueto cinghialone, insuperabile nel mediare, oliare gli ingranaggi della politica. Da oggi il vignettista dovrà trovarsi un altro animale, magari più fumantino, per rappresentare su carta questa vecchia conoscenza della politica italiana.
Mancino il galantuomo, Mancino il prudente, Mancino il «mastacconcia», come lo chiamavano agli esordi per l’innata abilità nell’acconciare posizioni diverse e tenersi tutti buoni. Per questo, con consenso bipartisan, l’hanno nominato vicepresidente del Csm: ci voleva uno come lui, per gestire le correnti interne senza irritare né a destra né a manca. Ci voleva la sua rustica costanza, per distribuire cariche giudiziarie con l’occhio fisso al bilancino della politica. E tutto con la sapiente ostinazione del gentiluomo di campagna: Enzo Biagi diceva che «ha una faccia da assaggiatore di caciocavalli». È la silenziosa perseveranza che da bambino, nelle valli irpine, gli permetteva di coprire 25 chilometri quotidiani a piedi per raggiungere la scuola, ad Avellino. Da qui il soprannome di «Piedone», a dispetto del tocco vellutato nel dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Figlio di un ferroviere e di una sarta, debutta come giornalista a Cronache Irpine, e sfocia subito in politica come discepolo di Fiorentino Sullo, il vecchio gerarca della Dc avellinese. Agganciandosi a Ciriaco De Mita, Piedone percorre passin passetto tutto il cursus honorum del partito, mantenendosi sempre a sinistra: segretario ad Avellino, poi a Napoli, poi consigliere, poi senatore. Nel ’94, sciolta la Dc, osteggia a tutti i costi l’alleanza del Partito popolare di Martinazzoli con Berlusconi: in compenso è stato tra i principali fautori della discesa in campo di Romano Prodi, e di questo francamente non ce la sentiamo di ringraziarlo. Pare abbia lavorato bene come ministro degli Interni nei primi anni ’90. La cattura di Totò Riina sotto il regno di Mancino gli valse la revisione del nomignolo: da «Piedone» a «Piedone lo sbirro». Proprio al Viminale sull’armadio campano piovve in testa qualche tegola: lo accusarono di aver coperto alcune operazioni illecite sui fondi neri del Sisde, ma la procura di Roma lo prosciolse. Meno chiara la storiaccia immobiliare in cui viene coinvolto qualche anno più tardi: nell’affaire Svendopoli, quello delle case degli enti edilizi vendute per due soldi a politici e sindacalisti, spunta anche il suo nome. Al costo irrisorio di un miliardo e mezzo di vecchie lire (poco più di 800 mila euro), nel Duemilauno Nicola avrebbe rimediato una magione di dieci vani più soffitta su Corso Rinascimento, a due passi dal Senato. Il bello è che poco dopo il gioiello di mattoni è stato rimesso sul mercato a 3 milioni di euro: praticamente il quadruplo del prezzo pagato. Insomma, è un personaggio che i conti in tasca li sa fare: quando però i conti bisogna farli con le intemperanze di certa magistratura, la cosa diventa più difficile. Da quando è arrivato al Csm ha dovuto sorbirsi il caso De Magistris, poi la bomba Forleo, poi l’atomica della procura di Santa Maria Capua Vetere. È stato in quel frangente, dopo l’arresto di Lady Mastella ordinato dal folkloristico procuratore Maffei, che Mancino alzò un sopracciglio: se la prese contro le toghe che agiscono come «schegge, che possono destabilizzare l’intera magistratura».
Se sorvoliamo sui toni, decisamente più battaglieri, alla fin fine non è un concetto così diverso da quello espresso da Berlusconi a Bruxelles. Sta di fatto che queste «schegge destabilizzanti», dopo decenni di placidità scudocrociata, cominciano a togliergli il sonno. Ed è un problema mica da poco, per lui che d’insonnia soffre davvero, tanto da alzarsi ogni mattina alle 5.

Che sia un lavoratore indefesso, è fuor di dubbio: al Csm arriva alle 8 e se ne va alle 20. Ogni giorno gli stessi ritmi, gli stessi toni pacati, il solito basso profilo. Almeno fino ad oggi, quando il bonario Nicola, dopo settantasette anni di quiete, si è calato in trincea.

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