Milano - I Mancuso sono due: c’è Libero, il più a sinistra dei due fratelli «sinistri». È il giudice della strage di Bologna oggi nella giunta Cofferati, «coperta della legalità» per il sindaco rosso. E poi c’è Paolo, pm di lungo corso, la barba da condottiero, carismatico e piacione.
Negli anni Novanta è il capo della direzione distrettuale antimafia di Napoli e si batte al fianco di Agostino Cordova nel tentativo impossibile di svuotare con la paletta e il secchiello della legalità il mare della criminalità.
Anche Paolo, come Libero, sta a sinistra: è esponente di Magistratura democratica, la corrente progressista delle toghe. Nel 1997 spicca il volo verso il Dap - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - e diventa il vice di Giancarlo Caselli al vertice delle carceri italiane. Nel 2001, col cambio di maggioranza e il conseguente spoil system, rientra nei ranghi. Cordova agita sempre la spada di latta della giustizia - l’immagine è sua - ma ormai è incupito e rassegnato. Soprattutto non gradisce il rientro di un collega così ingombrante e lo declassa, dirottandolo alla criminalità ordinaria. La Procura di Napoli diventa una polveriera e Mancuso accende la miccia sotto la sedia del procuratore.
Cordova dà un’intervista al Giornale e lui lo critica con un fondo su Repubblica, edizione napoletana, quotidiano sul quale scrive. La storia finisce al Consiglio superiore della magistratura che archivia. I due diventano nemici, ingabbiati dalla solita logica bipartisan all’italiana: Cordova, che apre inchieste a raffica su Bassolino e sulle giunte rosse, è il beniamino del centrodestra, mentre lui piace al centrosinistra.
Il tutto nel grande marasma della giustizia napoletana.
Scoppia la grana degli agenti che avrebbero pestato alcuni no global, pure a Napoli, in occasione del G8. Mancuso e altri due pm chiedono otto arresti, Cordova non firma e si defila, il gip li concede. La Procura entra in corto circuito con la questura che vorrebbe ritardare le manette: Mancuso, inflessibile, procede.
La parabola di Cordova si avvia alla conclusione fra dispetti e rancori. Sempre per il capitolo G8 Mancuso va al tribunale del riesame senza la delega del capo. Altro esposto al Csm e altra puntuale archiviazione. Un giorno, in piena estate, è proprio lui il reggente dell’ufficio: gli altri, persino lo stakanovista Cordova, sono in ferie. Fuori dal palazzo di giustizia c’è l’immancabile presidio dei disoccupati organizzati, una delle poche certezze di Napoli. Mancuso li riceve ma in ufficio non gradiscono quella che considerano una leggerezza: ennesimo esposto ed ennesima archiviazione del Csm.
Poi il gomitolo delle intercettazioni, condotte dalla Procura di Napoli, porta fra lo stupore generale anche a quel pm colla P maiuscola. Saltano fuori alcune battute di caccia, a sparare alcuni soggetti non proprio raccomandabili e con loro, in qualche caso anche lui, Paolo Mancuso, anche ai tempi in cui era il capofila della lotta alla mafia.
La Procura di Roma e il Csm indagano, poi archiviano ma le macchie sulla toga restano. Scrive il gip di Roma: «Pur presentando Paolo Mancuso numerose condotte e frequentazioni con soggetti pregiudicati e indagati dal suo stesso ufficio, non è stata acquisita la prova né del fatto che, saputo che il suo nome era comparso nelle intercettazioni effettuate a carico di Marano Stefano, abbia avvertito quest’ultimo dell’indagine, né di una consapevole attività dell’indagato tesa a intercedere presso i colleghi magistrati per far risolvere i problemi di Marano e degli altri indagati».
Il gip rileva una bugia sui suoi rapporti con Marano, imprenditore sospettato di essere un fiancheggiatore della camorra. Poi il gip, impietoso, accenna a una battuta di caccia di frodo con un soggetto indagato per mafia dalla Procura di Bari.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.