Mandela, novant’anni di violenza e sorrisi

Icona dell’anti-apartheid, aveva organizzato i campi militari dell’African National Congress. Nobel per la pace, presidente modesto, ha avuto tre mogli

Mandela, novant’anni di violenza e sorrisi

Come Silvio Pellico e Piero Maroncelli, eroi del nostro Risorgimento, Nelson Mandela visse il suo magic moment ai tempi del carcere, quando la sua immagine aureolata dalla chiara fama di patriota e martire della libertà, oppresso dai bianchi cattivi del Sudafrica, faceva il giro del mondo due volte al giorno. Fu lì, quand’era ancora ristretto nel piovorno carcere di Pollsmoor, a Città del Capo, dove i secondini passavano a dare la sveglia alle quattro del mattino, battendo con i manganelli sulle inferriate e latrando ordini belluini in boero stretto, che la gloria del leader nero anti-apartheid rifulse nel mondo. Non c’era politico d’ogni colore e latitudine, festa dell’Unità (quando le feste dell’Unità erano una cosa seria) o star del rock specializzata in buoni sentimenti a 50 euro il biglietto d’ingresso che non innalzassero arditi peana alla testa lanuta di quell’anziano, indomito, sorridente signore che lavorò per oltre trent’anni ai fianchi il potere che i bianchi dell’Africa australe, inventori dell’apartheid, difesero con le unghie e coi denti.

A differenza dei Pellico e dei Maroncelli, vissuti in un’epoca in cui il mondo era pazzescamente grande, e non ancora ridotto a villaggio globale, Nelson Rolihlahla Mandela era già un mito, una leggenda vivente a quarant’anni. Un Frank Sinatra, un Cassius Clay dei diritti civili, se i paragoni vi sembrano congrui. Sicché il conferimento del Nobel per la pace, assegnatogli a furor di popolo nel 1993, fu poco più di una formalità, un riconoscimento perfino tardivo.

Che fosse una testa calda lo si capì da subito, quando a 22 anni, invece di sposare una ragazzotta scelta per lui dal capo della sua tribù, il thembu Dalyndiebo, se la filò a Johannesburg, seguito dal cugino Justice, anche lui inseguito da un ordine di nozze coatte firmato dal capo clan.

Nel 1942, il ventiquattrenne Nelson era già tra le fila dell’African National Congress; nel ’56 lo arrestarono con l’accusa di alto tradimento. Nel ’61, appena liberato, divenne capo dell’ala armata dell’Anc coordinando campagne di sabotaggio contro l’esercito e altri obiettivi governativi, raccogliendo fondi all’estero per finanziare la guerriglia e organizzando campi paramilitari. Un terrorista della più bell’acqua, direbbe oggi lo stesso Bush che a suo tempo gli strinse calorosamente la mano, a dimostrazione che la differenza fra patriota e terrorista è sempre alquanto incerta, contraddittoria, squisitamente variabile a seconda dell’angolo da cui si guarda. I ragazzi della Cia, che non vanno tanto per il sottile e trovano stucchevoli certe distinzioni di lana caprina, lo «vendettero» nel ’62 alla polizia sudafricana, che lo consegnò ai giudici. La sentenza venne due anni dopo: ergastolo.

La «carriera» di Nelson Mandela, anzi di «Nelson Mandela libero», come gridavano le folle anti-apartheid ai quattro angoli del mondo, era cominciata.

Nel 1985 rifiutò la libertà condizionata in cambio di una rinuncia alla lotta armata. Ma i tempi stavano cambiando rapidamente. Le pressioni della comunità internazionale che lo volevano «santo subito» erano ormai insostenibili, l’apartheid disperatamente fuori moda. L’11 febbraio del 1990, dopo 28 anni filati di carcere, Mandela era libero. Nel ’94, dopo il Nobel, eccolo presidente del Sudafrica. E quella fu la sua rovina. Imbattibile capopopolo, forgiatore di slogan fortunati, cantore insigne della libertà del suo popolo, benedetto dal vescovo Desmond Tutu, da Gheddafi e da Fidel Castro, Mandela si rivelò un politico di levatura modesta, guadagnandosi anche l’uggia della sua stessa parte politica che non gli perdonò la sostanziale nullaggine delle conquiste sociali ottenute sotto la sua presidenza. Altrettanto inefficace, incongrua, deficitaria (lui stesso confessò di aver sottovalutato il problema) fu la risposta del suo governo contro il dilagare dell’Aids. Insomma, una pagina da dimenticare.

Turbolenta anche la sua vita sentimentale.

Della prima moglie poco si sa. La seconda, la celebre Winnie, era una specie di Nilla Pizzi caricata a pallettoni. Avida di palcoscenico, non meno di lui, si insignì del titolo di «madre della nazione africana». Donna di gamba piuttosto lesta, per non dire della sua turbolenza sotto il profilo sentimentale, Winnie divenne da ultimo bersaglio di scandali piuttosto seccanti, svariando dalla corruzione fino al sequestro di persona e all’omicidio. Nel ’97, ridotto allo stremo, Nelson divorziò.

Qualche anno dopo, in cambio di 60 mucche versate come «riscatto» alla famiglia dell’impalmanda, si è unito alla cinquantenne Gracia, vedova del presidente del Mozambico Savimbi. In fondo, sono solo i primi novant’anni del vecchio Nelson.

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