Mangano un eroe? Sì, perché ha impedito di farsi «spatuzzare»

Caro Granzotto, vorrei da lei un’opinione sulla frase espressa dal senatore Marcello Dell’Utri: «Mangano era il mio eroe: in carcere, ammalato, più volte è stato invitato a parlare di me e Berlusconi, e si è rifiutato di farlo». È, come sostengono Travaglio e compagnia, un’ammissione di colpevolezza (Dell’Utri e Berlusconi colpevoli, ma non condannati perché Mangano ha taciuto), un messaggio mafioso o semplicemente un maldestro omaggio alla memoria dello «stalliere di Arcore»?
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Maldestro, maldestrissimo omaggio, caro Tirabosco, che ha dato a Travaglio l’occasione di chiosare quella frase volgendola alla demonizzazione mafiogena sia di Berlusconi che di Dell’Utri. Il quale avrebbe dovuto dire che Mangano è un eroe perché nonostante il trattamento giudiziario (sul quale torneremo subito) non ha voluto compiacere chi intendeva «spatuzzarlo», farne cioè un pentito prêt-à-porter che tutt’un botto si ricordasse di certe chiacchiere al bar, sufficienti a incastrare il Cavaliere nel ruolo di stragista. Ma Mangano non volle «spatuzzarsi», anche se ciò avrebbe comportato un’infinità di privilegi, primo fra tutti uscir di galera e farsi curare. Molto s’è ironizzato anche su quell’«eroe», ma è atteggiamento comprensibile intendendosi usualmente per eroico il coraggio fisico ed essendo quello morale tenuto in nessunissimo conto (nel sentire comune chi dà prova di coraggio morale pagandone le conseguenze è immediatamente qualificato, dai «furbi», come fesso). E il coraggio di Vittorio Mangano fu del secondo genere, dunque misconosciuto al Grande Barnum giustizialista.
E veniamo, come promesso, al trattamento giudiziario. Non più alle dipendenze, in qualità di fattore, di Berlusconi, incriminato per associazione per delinquere, Mangano viene processato a Palermo e condannato a dieci anni. Scontata la pena, nel 1994 viene di nuovo arrestato, questa volta per associazione mafiosa. Nel corso del processo è insistentemente interrogato su Berlusconi e Dell’Utri. Prosciolto dall’accusa, viene nuovamente accusato, questa volta dell’omicidio di un mafioso. La Corte di primo grado lo condanna all’ergastolo, sottolineando, però, l’incompatibilità col carcere. Mangano infatti sta male, molto male e deve essere tenuto costantemente in cura e sotto controllo: la sua cartella clinica parla di vascolopatia cerebrale, cardiopatia ipertensiva, trauma cranico, lesioni alla colonna vertebrale e frattura di una scapola. Nonostante ciò Mangano è destinato prima al carcere duro di Pianosa e in seguito a quello altrettanto duro di Secondigliano. Nel corso del processo in appello (dove seguitano a interrogarlo su Dell’Utri e Berlusconi) è costretto a presentarsi in aula o in barella o sulla sedia a rotelle. Ma la giustizia non ha tempo da perdere e quando Mangano proprio non ne può più - un infarto, che lo colpì in carcere, gli aveva fatto perdere l’uso del braccio e della gamba destra - viene interrogato, dall’aula dove ovviamente processavano Dell’Utri, in videoconferenza. Mangano peggiora giorno dopo giorno: quando, convocati dall’avvocato, i periti lo visitano il 3 luglio del 2002, restano di sasso: il detenuto era in fin di vita. Ne danno comunicazione alla Pretura - non dimenticando di denunciare i ritardi del servizio sanitario carcerario - la quale, solo allora, si decide a disporre gli arresti domiciliari. Era il 5 luglio.

Il 23 Vittorio Mangano («il caro estinto», come si compiace di ricordarlo Marco Travaglio) muore. Si può discutere se fu o non fu un eroe, come lo vuole Marcello Dell’Utri. Certo è e resterà un esempio fra i più eloquenti di come una certa Magistratura predilige amministrare la giustizia.

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