Mani libere, tormento d’autunno

D’obbligo nella Prima Repubblica, riesumate da Bossi, oggi sono annunciate a ogni piè sospinto

da Milano

Sono arrivate subito dopo Mani pulite, le mani libere. Nella Prima Repubblica non le invocava nessuno, perché le avevano tutti: le maggioranze in Parlamento si formavano dopo il voto, il trasformismo era un fattore magari inelegante ma inevitabile. È stato con l’avvento del bipolarismo che i partiti, ingabbiati in uno schieramento, hanno conosciuto l’insofferenza e imparato a usarle come un’arma, e forse non è un caso che l’espressione arrivi dalle arti marziali.
Il primo in assoluto fu quel creativo del Senatùr, nel lontano 1994. Erano i tempi della rivolta padana e di Roma ladrona. C’era il governo del Polo da formare e Umberto Bossi giocò a spiazzare: «Potrei entrare e dare testate a Berlusconi, come in campagna elettorale. Stando fuori avrei mani libere. Vedremo come si metterà». Come si mise ormai è storia, e fu allora che la minaccia diventò tale. Perché se la Lega le mani libere se le tenne non subito ma un anno dopo, facendo cadere il governo Berlusconi sulla riforma delle pensioni, la situazione si ripresentò uguale e contraria nel 1998, quando fu Rifondazione a far cadere il governo Prodi, ancora sulle pensioni e sempre camminando sulle mani libere. Allora era toccato a Fausto Bertinotti, quando ancora la stampa lo definiva «leader movimentista», altri tempi: «Penso che avere le mani libere, così come la testa, sia un’opportunità. Al contrario, come ognuno sa, avere le mani legate è un bel guaio». Da allora è un crescendo, quello di annunciare che ora basta, voteremo come meglio ci parrà sui singoli provvedimenti, con tanti saluti al vincolo di coalizione e, di solito, «senza sconti».
Gli ultimi in ordine di tempo sono stati Lamberto Dini, Enrico Boselli e Rosy Bindi, che hanno gettato nel panico la già traballante maggioranza di centrosinistra al Senato.
Il precursore, nel Prodi II, è stato quel Franco Turigliatto dissidente Prc che, per primo, ha costretto l’Unione a ogni votazione in Senato al faticoso lavorio di fare la conta, chi c’è, chi vota e come. Era il 28 febbraio scorso, una settimana prima il governo non aveva ottenuto la fiducia sull’impegno militare all’estero e il premier aveva rimesso il mandato al Colle, vedendoselo riassegnare a patto che dimostrasse di ritrovare la maggioranza. «Darò la fiducia, che equivale a un appoggio esterno», concesse Turigliatto, che però avvertì: «Ma poi avrò mani libere».
Poi fu il turno di Oliviero Diliberto, che il 29 luglio surriscaldò il già rovente clima sul protocollo del welfare appena firmato: «Riapriamo la trattativa o al voto avrò mani libere». E sempre sul welfare si accodò, era il 2 ottobre, Mauro Fabris dell’Udeur: «Se i lavoratori bocceranno l’accordo al referendum l’Udeur avrà le mani libere per stringere nuove alleanze». Poco prima, a settembre, era stato Willer Bordon a sganciarsi dall’imminente Pd, rispondendo così alla domanda di Panorama sull’eventualità di avere mani libere: «Rivendico libertà d’azione. Se insisteranno coi voti di fiducia impropri potremmo mandarli a quel paese». E a quel paese fu Antonio Di Pietro a mandare l’Unione intera un mesetto dopo, era il 25 ottobre e il padre di Mani Pulite passò alle mani libere. Non le annunciò, semplicemente mise in pratica, votando con la Cdl sulla società per il ponte sullo Stretto di Messina.
Chi non le ha evocate almeno una volta è out, e così periodicamente tutti le annunciano, non importa su cosa, tutto vale.

Segni le minacciò sulla Bicamerale nel ’96, Marini sulla riforma elettorale nel ’97, Fini sull’economia nel 2004, Casini in vista delle elezioni nel 2005, seguito da Bossi nel 2006. A liberarci dall’incubo potrebbe essere proprio il «padre» del bipolarismo, Silvio Berlusconi, che ha deciso di fondare un partito «dalle mani libere». Che non a caso si chiamerà «della Libertà».

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