Da Mani pulite al D’Addario-gate la fuga di notizie resta impunita

Il copione è sempre uguale: l’inchiesta va sui giornali, si apre la contro-inchiesta però la talpa non si trova mai. L’eccezione? Il caso Fassino, ma per colpire "Il Giornale"

Il meccanismo è sempre lo stesso. Un’inchiesta delicata, fin lì acquattata fra migliaia di faldoni, esplode direttamente sui giornali. È sedici anni che la giostra gira intorno al premier, ma non solo a lui, e gli consegna fra squilli di tromba, verbali, intercettazioni, avvisi di garanzia. È appunto a Napoli, nel novembre ’94, che Berlusconi riceve direttamente dal Corriere della Sera l’invito a comparire che lo trascina nell’arena delle indagini del pool. Di lì a qualche settimana è il governo, il primo del centrodestra, a franare travolto da uno scandalo che poi finirà con l’assoluzione del Cavaliere. La controinchiesta sulla fuga di notizie non approda a nulla e così sarà per tutte le indagini successive. Anzi no, perché in un caso, la pubblicazione delle scivolose intercettazioni del segretario dei Ds Piero Fassino, pubblicate dal Giornale nel 2005, la procura di Milano, di solito impotente, a furia di scavare si è fatta un’idea che, guardacaso, passa attraverso Arcore. Ad Arcore si sarebbe presentato il dirigente di una società incaricata di effettuare le intercettazioni per i magistrati di rito ambrosiano, la Rcs, portando in dono come i re magi quel nastro così prezioso.
Insomma, per una sorta di par condicio, la più imbarazzante fuga sul lato sinistro delle indagini porta a ipotizzare i mandanti a destra. Ma è un unicum.
Perché dai tempi di Mani pulite tutti gli scoop sono orfani di padre. E le inchieste sulle inchieste si sono sempre dimostrate esercitazioni retoriche, buone solo per polemizzare sui limiti del segreto. Così quando il premier denuncia per l’ennesima volta l’ennesimo spiffero, Borrelli ne approfitta per spiegare che i verbali degli inquisiti non sono più segreti. A meno che, e non è un gioco di parole, non siano stati segretati. Non solo: il direttore d’orchestra del pool abbozza le linee guida di un saggio sulla fenomenologia della fuga in cui spiega che il palazzo è pieno di fessure, buchi, aperture. Insomma, presidiare una notizia non è come presidiare una porta di calcio. Parare i colpi è impossibile. O quasi.
Le indiscrezioni generano una valanga di esposti e denunce. Ma i risultati sono davvero sconfortanti. Solo balbettii. Poco o nulla. A Milano. Come a Brescia, teoricamente, ma solo teoricamente competente sui reati compiuti dai magistrati ambrosiani. Come in Cassazione. E poi, c’è la strada, anche quella battuta senza successo, dei rapporti firmati dagli ispettori del guardasigilli di turno. Un susseguirsi di grida manzoniane, senza risultato. Già il ministro Filippo Mancuso censura il comportamento di Borrelli, ma la Cassazione arriva ad una conclusione opposta: non c’è stato nulla di anomalo.
È tutto regolare. Gli avvocati del premier aggiornano minuto per minuto le violazioni del segreto, ma sono proiezioni matematiche: nell’ormai lontano 1995 siamo già a quota 130 fughe. Troppe per mettere un argine.
È l’arte della fuga, un titolo che forse piacerebbe al musicofilo Borrelli. Tutti si lamentano, tutto va avanti come prima. Dai tempi di Mani pulite fino ai nostri giorni. Da destra a sinistra. Si indigna Clemente Mastella, all’epoca Guardasigilli del governo Prodi, perché da Santa Maria Capua Vetere trapela la notizia che il pm avrebbe voluto farlo arrestare, ma il gip ha detto no. E da sinistra a destra. È un profetico Massimo D’Alema a cogliere, meglio di un cronista giudiziario, quel che sta bollendo nel pentolone della procura di Bari, anticipando la «scossa» che metterà in difficoltà il premier. Poi sulla scena irrompe Patrizia D’Addario e i giornali registrano anche i sospiri. I verbali di Gianpaolo Tarantini, blindati negli armadi inaccessibili della procura, trovano la combinazione giusta per arrivare sui quotidiani. Così come le telefonate fra Tarantini e la escort, ufficialmente segretate, sigillate e non ancora trascritte. Anche il pasticcio di Trani atterra prima del tempo, ma sempre in forma di pastrocchio, sulle scrivanie del Fatto. Chi è stato? Mistero.
Ci vuole l’intercettazione del luglio 2005 fra il numero uno di Unipol e della finanza rossa Giovanni Consorte e il leader dei Ds Piero Fassino per trovare finalmente una traccia. Questa volta la procura è meglio di un cane da tartufo: Gianluigi Nuzzi, l’autore dello scoop, viene controllato, rivoltato, persino pedinato. Niente. Non importa.

Perché nella faretra dei pm c’è un pentito che porta ad Arcore e alla società Research control system. È andata davvero così? Gli accertamenti proseguono. Per una volta e solo per quella, la procura ha provato a parare. Prima e dopo la porta era vuota.

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