Mondo

Mansour, il tennista che sfidò Khomeini. E vinse

Alì oggi vende colpi di racchetta per un pugno di dollari. Non doveva finire così, ma ad Acton, Massachusetts, in fondo la vita scorre felice, anche se il rimpianto a volte fa male. Alì oggi ha 53 anni e trent’anni fa aveva un amico, Mansour, con il quale giocava a tennis: stesse speranze, stessa qualità, colpi diversi, perché Ali Madani era un giocatore classico, mentre Mansour Bahrami cercava il colpo ad effetto sempre, la smorzata impossibile anche quando sarebbe bastato metter la pallina semplicemente al di là della rete. Il ragioniere e il clown, facevano una bella coppia loro in Iran.
La storia di Alì e Mansour è stata riportata alla luce dal New York Times, perché le porte che si aprono improvvisamente nella vita fanno sempre notizia. Sliding doors, ricordate? Ci hanno fatto pure un film. Ecco, allora la trama è questa: Madani e Bahrami erano il doppio di coppa Davis della Persia che guardava a ovest e avevano entrambi il sogno di conquistarsi un posto nell’Occidente dello sport. Solo che quel film non aveva un lieto fine.
Anno 1979, arriva la rivoluzione islamica: l’Ayatollah Khomeini dichiara il tennis uno sport troppo filoamericano, capitalista, decadente e ne dichiara l’estinzione. Alì e Mansour insomma si ritrovano senza lavoro, da un giorno all’altro, la loro gloria doveva essere solo al servizio di Allah. Non restava insomma che fuggire e per battere Khomeini non restava solo che un modo: giocarsela a tennis. L’occasione arriva dopo insistenti richieste tramite la Revolutionary cup, un torneo a cui le autorità danno il via libera per vedere se questo sport con le racchette possa diventare propaganda anche a Teheran. Tutti in campo allora, con i pochi tennisti iraniani rimasti che si contendono il visto per un viaggio andata e ritorno verso Atene. Era giusto trent’anni fa.
«Non ho mai pensato che ci avrebbero fatto giocare davvero - dice oggi Bahrami -: la mia idea era che appena scesi in campo i mullah sarebbero venuti a prenderci per metterci in galera». E invece Alì si fidava, in fondo cosa facevano di male loro con quella racchetta? E fu così, il torneo ebbe inizio e naturalmente in finale si ritrovarono i migliori, loro due: Madani contro Bahrami. Chi batteva l’altro avrebbe battuto anche l’ayatollah e in palio c’era la libertà. «Era chiaro che chi fosse riuscito a uscire dal Paese non ci sarebbe più tornato» insiste Bahrami, ed è per questo che Alì era molto nervoso, tanto da perdere il primo set 6-2: «Non avevo mai fallito contro Mansour. Lui era un giocatore di talento ma troppo falloso, io invece ero molto più regolare. Solo che quel giorno eravamo due amici in campo che si giocavano qualcosa di troppo importante». Un colpo, l’altro, Bahrami comincia a strafare, Madani a ragionare: 6-0 finisce il secondo set per lui, ci si gioca tutto nel terzo che va punto a punto. «Nessuno voleva mollare, poi all’improvviso sbagliai quello che non avevo mai sbagliato prima e il danno fu fatto»: 7-5 Bahrami, Khomeini era sconfitto. Solo che con lui era battuto anche l’amico Alì.
«Continuavo a pensare che non mi avrebbero lasciato partire - ricorda Bahrami - e volevo regalare il viaggio alla mia fidanzata di allora. Poi un amico mi disse che conosceva il ministro degli Esteri Sadegh Ghotbzadeh e che mi avrebbe fatto avere il visto per Parigi». Ghotbzadeh fu di parola, tanto che un anno e mezzo dopo - quando Mansour aveva beffato l’ayatollah e già giocava a tennis in Francia - fu fucilato per ordine di Khomeini nonostante lo considerasse quasi un figlio. La sua colpa? Era troppo buono. «Mansour fu fortunato - dice oggi Madani - ma perdemmo entrambi troppo tempo. Lui continuò ma non poteva disputare i tornei Atp, io restai fermo un anno e mezzo prima di fuggire a mia volta. Il mio tennis però non c’era più». Risultato: oggi Bahrami fa ancora il clown e per 40 settimane gira il mondo e diverte il pubblico con le sue esibizioni di tennis, Madani invece - dopo aver disputato cinque match (tutti persi) nel circuito professionisti - fa il maestro ad Acton. Ogni colpo di racchetta vale qualche dollaro: «Non ho invidia per Mansour, lui si è fatto un nome con le esibizioni, io me la cavo. Certo: chissà cosa sarebbe successo se avessi vinto quella finale, è dura veder svanire un sogno senza poter provare a realizzarlo».

È dura avere rimpianti Alì, anche se trent’anni dopo una certezza c’è: poteva finire peggio.

Commenti