Manuel Agnelli: «Afterhours pronti al debutto americano»

Domani sera in concerto all’Alcatraz la band italiana dal sound più internazionale affronta i suoi fan

Antonio Lodetti

«Ho sempre ignorato la mia vita, perché mentre la vivi non la vedi. Gli Afterhours sono stati la mia vita quotidiana, la cosa più presente, la costante non volontaria. Adesso anche il suono del nostro nome è diverso dall’inizio perché contiene la nostra matrice e mille significati aggiunti. Non siamo niente di veramente sperimentale, niente di veramente mai sentito ma abbiamo una nostra personalità: l’unica cosa che miravamo a raggiungere».
Così Manuel Agnelli chiude il libro Ballate di male e miele (Arcana Editrice), storia raccontata in prima persona dagli Afterhours. La band italiana dal suono più internazionale (confermata dalla versione rielaborata in inglese di Ballate per piccole iene, intitolata Ballads For Little Hyenas, e dalle collaborazioni con l’ex Afghan Whigs Greg Dulli e Mark Lanegan, ex voce degli Screamin Trees), appena tornata dal tour europeo e pronta per il gran debutto americano a maggio. Ora il gruppo è tornato in Italia e domani sera tiene concerto all’Alcatraz.
Sempre e comunque on the road.
«È la nostra filosofia di vita, la musica prima di tutto. Anche in Europa vogliamo mantenere la nostra identità. In luoghi come Barcellona abbiamo suonato nello stesso giorno in un club e in un luogo più ristretto, come la Fnac, per avere un contatto diretto col pubblico».
Alla conquista del mondo come la Pfm negli anni Settanta.
«Non andiamo a caccia di successo; portiamo avanti la nostra estetica cercando di essere il più personali e originali possibile. Abbiamo un obiettivo ambizioso: suonare un rock and roll che non assomigli a nessun altro. Siamo orgogliosamente rock senza per questo imitare i grandi gruppi americani».
Non vi sentite arrivati?
«Anzi, tutto il contrario. Questo per noi è un punto zero. I concerti all’estero servono per liberare la mente. È fantastico per la nostra creatività suonare in posti dove siamo dei perfetti sconosciuti, con la libertà totale di essere noi stessi. Qui siamo imprigionati in un involucro, per bello che sia. I fan si aspettano certe cose, certi brani. invece all’estero siamo completamente vergini».
Ma «Ballate per piccole iene» e soprattutto la versione inglese segnano un punto fondamentale nella vostra carriera.
«Sì, anche se, paradossalmente, il disco è nato in un periodo di sbando interiore che contrasta con un momento professionale molto positivo. Nelle canzoni c’è tanta rabbia, molta amarezza che nasce dal nostro disagio di fondo. Per questo non siamo mai appagati: stiamo ancora cercando di capire chi siamo».
C’è un approccio differente nel cantare e nello scrivere in inglese?
«Nello scrivere no, lo facciamo da sempre. Col canto invece è diverso. In italiano se gioco con le parole dicono che sono un poeta, cantando in inglese devo ridimensionare l’aspetto linguistico. In questo mi ha aiutato parecchio Greg Dulli, che ha prodotto l’album senza che il canto sembrasse artefatto».


Vi esibirete con Dulli e Lanegan?
«Nel tour americano saranno senz’altro al nostro fianco e, probabilmente, ci saranno anche delle session a sorpresa».
Il vostro segreto?
«Mettiamo sul piatto energia ed emozionalità, magari tra i giovani d’oggi senti suoni più freschi e look migliori del nostro, ma noi puntiamo sull’autenticità».

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