LA MARATONA ELETTORALE I risultati

Anche questa volta ci si straccia le vesti per la scarsa affluenza alle urne. È un classico. Rispetto alle elezioni amministrative del 2005 i votanti sono diminuiti di quasi otto punti percentuali, passando dal 72 al 64,2. In cinque anni, si sarebbero perciò «disamorati» della politica quasi tre milioni di persone. In tutto, circa 14 milioni di concittadini hanno disertato i seggi.
Ora il Palazzo si interroga e si batte il petto per la brutta campagna elettorale, costellata di scandali giudiziari, di picche e ripicche sulle liste, ecc. È così ogni volta. Facciamocene una ragione: la gente, se non sono le politiche, si disinteressa al voto. Succede sempre di più. È come se ci si fosse abituati alla democrazia e, dandola per scontata, se ne trascurino i riti. Se infatti - tanto per dire - facciamo un paragone, non con le precedente tornata amministrativa ma con le elezioni europee dell’anno scorso, scopriamo che l’astensione era già più o meno quella di oggi: nel 2009 votò infatti il 66,46 degli aventi diritto che è poco più del 64,2 di ieri. Alle precedenti europee (2005) si erano recati alle urne il 71,72 che è un dato in tutto simile al 72 per cento delle amministrative dell’anno successivo. Sono dunque tendenze che rispecchiano il clima di determinati periodi.
Restiamo comunque, tra i Paesi occidentali, fra quelli più affezionati al voto. Alle europee dell’anno scorso fecero meglio di noi Malta e il Belgio. Molto peggio invece Francia (40,48), Germania (43,09), Spagna (45,81). Per tacere della Slovacchia dove si presero la briga di infilare la scheda nello scatolone solo il 19,64 degli elettori. Questo per dire che non bisogna drammatizzare. Si possono perfino eludere le urne perché si ha comunque fiducia nei propri amministratori. È quello che succede in Svizzera dove le percentuali di affluenza sono scarse nella consapevolezza che il governo continuerà a fare bene anche senza l’indicazione popolare.
Non è ovviamente il caso dell’Italia (come non lo è stato per l’astensione in Francia la settimana scorsa). Da noi, è sempre segno di malessere. La politica - nelle elezioni di ieri - ha perso terreno tanto nelle Regioni dove ha vinto il Pdl quanto in quelle in cui è stato confermato il Pd. Entrambi gli elettorati hanno mostrato la propria irritazione.
Una prima osservazione è che le Regioni - nonostante il crescente decentramento - non appassionano più di tanto. Amministrano la Sanità - in cui spendono l’80 per cento del proprio bilancio - ma per il resto non si capisce bene in quale modo incidano sulla nostra vita. Né il dibattito, inesistente, di questa tornata ci ha aiutati a capirlo meglio. Sono troppo lontane dai nostri interessi concreti. La prova del rifiuto sta nel fatto che invece la dove si è votato per le province e per i comuni, l’affluenza è stata maggiore. Per i sindaci è stata addirittura di soli tre punti - non sette come per le regionali - minore che nel 2005. Dunque, più la circoscrizione elettorale è piccola, e vicina alla gente, più è convinta la partecipazione.
Determinanti, comunque, sono state le ultime settimane di battaglia elettorale. Le iniziative dei politici sono state interrotte da tre micidiali interventi della magistratura. La procura di Firenze ha messo sotto inchiesta Guido Bertolaso e la conduzione della Protezione civile. Il centrodestra, messo nel mirino, è stato macchiato, ha dovuto difendersi e si è distratto. La procura di Bari se l’è presa invece col centrosinistra e il Pd, pur facendo lo gnorri, si è trovato a mal partito. La Procura di Trani ha armato un can can sulle telefonate anti Santoro del Cav e gli ha sottratto tempo e serenità per occuparsi di cose serie a Palazzo Chigi. A questi guai, il Pdl ha aggiunto del suo con la faccenda della lista ritardataria nel Lazio. Il premier si è lasciato invischiare e ha fatto alcuni passi falsi. A cominciare dal decreto legge per fare riammettere la lista con cui, coinvolgendo anche il capo dello Stato, ha dato l’impressione di volere cambiare le regole in corso di gara. Ma la sinistra, insistendo per l’esclusione della candidata Polverini, ha fatto la figura di chi voleva vincere a tavolino. L’uno e l’altra, agli occhi degli elettori, sono usciti dalla lizza con le ossa rotte. Il Pdl col marchio dell’arruffone incapace, il Pd con quello del cinico maramaldo che inzuppa il pane nei guai altrui.
Gli scandali hanno stravolto la gara. Entrambi gli schieramenti hanno dovuto rinunciare alle loro tattiche usuali. Il Cav, intimidito, non ha potuto fare in modo convincente la chiamata alle armi. Né, costretto a rintuzzare gli attacchi, ha saputo mantenere la barra sulle riforme. E non facendole non ha potuto presentarsi all’elettorato nella sue veste preferita: quella di alfiere del «governo del fare». Simmetricamente, la sinistra non ha osato innalzare il solito vessillo della «diversità». I ladri e i disinvolti se li è trovati in casa e ha ridicolizzato lo slogan con cui aveva iniziato la campagna elettorale: «in una parola, un altro Paese». Quale di grazia, se i tuoi esponenti sono incarcerati in Puglia, il sindaco di Bologna è accusato di avere distratto denaro pubblico per l’amante e il governatore Marrazzo è sospettato di avere fatto lo stesso per i trans?
Da tutta questa roba «metapolitica», la gente è rimasta frastornata. Nell’uno e nell’altro campo. Il premier messo sotto schiaffo, l’opposizione idem, il capo dello Stato attaccato da Di Pietro che lo vuole processare, la magistratura che tampina la politica a suon di manette. Si vota per scegliere chi ci deve amministrare. Ma se l’autorità appare indegna che si vota a fare? Ce n’è quanto basta per restare a casa.
Non escluderei che a questo clima di stanchezza verso l’autorità azzoppata abbiano inciso anche gli scandali della Chiesa come uno sgradevole sottofondo psicologico. I preti pedofili e l’omertà delle gerarchie; la ragazza murata nella cattedrale di Potenza e lo scaricabarile di parroci e vescovi; il sospetto infine di un caso analogo nel convento dei cappuccini di Cesena. Un’intollerabile atmosfera da romanzo gotico.

Gli elettori sono spesso dei fedeli e molti di loro si saranno sentiti doppiamente orfani: del politico e del prete. Alle magagne del primo abbiamo fatto il callo ma se ci si mette anche l’altro, io chiudo la porta e getto la chiave. È quello che è successo e non fa una grinza.

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