«Piove che è un piacere». Con queste parole il fascistissimo Dino Perrone Compagni commentò, poco entusiasticamente, linizio di quella insurrezione, caotica e variegata, che viene per lo più indicata come «Marcia su Roma». E, in effetti, la fine di ottobre del 1922 si rivelò climaticamente avversa alle camicie nere. Violenti nubifragi fustigarono le migliaia di persone che erano accorse al richiamo di Mussolini. E quando, nel pomeriggio del 29, alle «truppe» fasciste, acquartierate a nord della capitale, giunse la notizia che il duce del fascismo era stato nominato capo del governo, il morale era già sceso sotto le scarpe. Orbaci fradice, tende da campo insufficienti e armi vetuste avevano contribuito a smorzare gli entusiasmi. Leuforia non arrivò nemmeno con il successo. Per entrare a Roma dovettero aspettare le 13,30 del 30 ottobre e laccoglienza riservata dalla città fu tuttaltro che amichevole (ci scappò anche qualche fucilata).
Forse è a partire da tutte queste considerazioni che la storiografia relativa alla Marcia su Roma tende spesso a minimizzare la portata dellevento. La vulgata parla solo di tentennamenti monarchici, di irresolutezza nel fermare una sorta di carnevalata in salsa militare. Gli storiografi, di qualsiasi orientamento, sulla questione spesso tagliano corto, preferendo dedicarsi ad altri temi, lasciando che queste convulse giornate galleggino tra la farsa e la tragicommedia. La presa del potere da parte dei fascisti è quasi sempre descritta come un evento fortunoso, nel bene e nel male privo di quella drammaticità riconosciuta, per esempio, alla presa del Palazzo dInverno o allincendio del Reichstag.
Eppure questo epilogo, lingresso a Roma di un radioso Benito che, abbandonata la camicia nera, opterà per un rassicurante look caratterizzato da tuba e redingote per tranquillizzare i liberali, non è liquidabile semplicemente come un semplice mix di incapacità del governo, timori della monarchia e casualità. La marcia fece parte di eventi più ampi in un clima che stava prendendo forma da anni. Fu la logica conseguenza della degenerazione di un sistema politico. E, soprattutto, non fu un fatto «romano». Mentre qualche decina di migliaia di uomini marciava verso la Città eterna, nel resto del Paese molti capoluoghi venivano occupati dai fascisti, i gangli e i nodi di comunicazione tra la periferia e il centro venivano recisi, spesso potendo contare sullinerzia o addirittura la connivenza dei reparti militari. Insomma, dietro la marcia vi fu una pianificazione complessa.
Questa complessità è molto ben raccontata in La marcia su Roma. Ottobre 1922 di Giulia Albanese, storica dellUniversità di Padova e autrice di altri importanti saggi come Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922. Il libro, in allegato da domani con il Giornale, caratterizzato soprattutto dallutilizzo di fonti coeve e poco valorizzate dagli storici, inserisce la «Marcia» in un contesto più ampio e ne rende più chiare le dinamiche e il senso. A esempio il primo capitolo, «La politica del colpo di Stato», descrive nel dettaglio la convulsa situazione Italiana che creò, a partire dal 1919, le premesse per lazione violenta del fascismo.
Perché se si parla sempre della presa di Fiume come di un modello per la successiva azione degli squadristi, la Albanese mostra come la logica del colpo di mano fosse penetrata in profondità nelle dinamiche dei partiti italiani. E come i giornali riempissero le loro pagine parlando di complotti di ogni tipo, veri o presunti. Insomma, tutti si scambiavano accuse di «golpismo». Non solo. Il libro evidenzia come le inerzie e le connivenze dei reparti militari furono molto più forti e radicate di quanto si possa immaginare; il che, se non scusa titubanze regie, le spiega.
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