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La marcia di Al Gore contro Hillary: «Farà i conti con me»
Lex vicepresidente degli Stati Uniti a Milano non esclude una ricandidatura alle prossime elezioni
Lex vicepresidente degli Stati Uniti a Milano non esclude una ricandidatura alle prossime elezioni
da Milano
Si presenta così, già sudato. «Sono Al Gore, lex futuro presidente degli Stati Uniti». Viene per parlare dambiente. È lo sfondo, il pretesto, forse la scusa. Dice e non dice, come fa da un anno. E però stavolta ripete tante volte: «Non escludo di candidarmi». Ancora: «Ci sono già stato alla Casa Bianca. Ora non ci penso, ma non escludo volerci tornare».
I non escludo sono un un passo avanti. Sono il fantasma che diventa lombra che sallunga sugli avversari: si è messo alle spalle dei candidati democratici alle primarie 2008. Aspetta. Lerrore, la gaffe, i materassi. Vuole poter dire: «Io ho governato, gli altri no». Gore cè: in corsa più di quanto voglia far credere. Non arriva ancora all«Im in». Va per gradi, come fece Bill Clinton nel 1992. Al allepoca era senatore del Tennessee e saltò sulla carovana di Bill. Ora pensa che Hillary, Obama, Edwards siano partiti troppo presto. «Mancano cinquecento giorni alle elezioni presidenziali. La strada è ancora lunga». Suda sempre. Adesso di più. Ricomincia: il clima, il riscaldamento globale, lambiente, le emissioni di gas. «Vi avverto: è da un po che ho cominciato a perdere la mia obiettività quando parlo di George W. Bush. Se gli Stati Uniti non vorranno fare nulla sullambiente, qualunque accordo internazionale fallirà. Allultimo G8 ci sono state solo chiacchiere: la promessa di riparlare dellargomento. Il nulla. È stata una disgrazia mascherata da successo». Allora il manifesto ambientalista diventa politico. È il terzo uomo lui, quello che sta fuori dai palazzi, eppure quando parla della gente, della democrazia, è come se voglia rivolgersi agli inquilini dello stesso palazzo. Alla Casa Bianca: «Questa non è più lora dei politici, è lora della democrazia dal basso. Il cambiamento deve partire dalla gente».
Ecco che cosa aspetta, Gore. Che arrivi il momento di dire «me lhanno chiesto. È la gente che mi spinge a riprovarci». Arriverà quellattimo: Al gira il mondo anche per questo. Al ha pubblicato The Assault on reason anche per questo. E chissenefrega che il Washington Post labbia stroncato. Vende. È primo nella classifica dei best seller del New York Times. Ovvero, pensa lui, piace alla gente. Anche questo è venire dal basso. Degli altri, repubblicani e democratici, Gore se ne frega. Glissa, scavalca, aggira. Quando arriva la domanda sulla squadra già in corsa per la presidenza cerca di chiudere la porta: «Non credo ci sia il tempo di parlare di questo». La riapre, però. Il passo avanti si trasforma in una mezza confessione, il «non escludo» diventa qualcosa in più: «Lho detto, mancano ancora 500 giorni. Se lavorerò bene, se sarò bravo, faranno tutti i conti con i miei temi e le mie teorie».
Con lui, vuol dire. È sottinteso, è tra le righe, è sospeso. Il sudore che scende sulla guancia aumenta e allora forse la frase criptica vale davvero la voglia di candidarsi. Contro Hillary, soprattutto. Poi contro Obama, Edwards e gli altri democratici. Nei sondaggi, oggi lex vicepresidente ha il 15 per cento senza essere candidato. Significa che è già terzo, dietro la Clinton e dietro il senatore afroamericano dellIllinois.
La marcia è cominciata. Lo dice Bill Clinton che conosce Al. Allora in ogni intervista sulla campagna della moglie, lex presidente continua a ripetere a tutti di stare calmi: «Aspettate leffetto Gore. Vedrete che prima o poi si verrà allo scoperto». Clinton pensa che la macchina sia già partita. Qualcosa si vede: su internet i siti di raccolta fondi per leventuale candidatura sono già due. Il quindicinale liberal New Republic esce con un ritratto-intervista che assomiglia a una autopromozione: «What went wrong». Cioè che cosa è andato male con gli altri e quindi che cosa andrebbe meglio con lui. Poi cè il resto della campagna: due settimane fa, mister ex futuro presidente, sè preso la copertina di Time: «Lultima tentazione di Al Gore». È il racconto della rivincita: l'uomo che perse la presidenza contro George W. Bush per una sentenza della Corte suprema vuole rigiocarsi la partita. Per ribadire il concetto, è uscito anche il magazine del New York Times. Fa la sfinge: «È un cosa complicata, ma non misteriosa». Spiega, racconta, dice, poi lancia lautopromozione: «Sono convinto che oggi otterrei risultati migliori del 2000, ma per il momento non ho ancora deciso niente». È un altro modo daspettare la mossa degli altri. Quelli che lo raccontano così: «Ha raggiunto lo status di profeta. Dovunque vada, la gente lo incoraggia. Lo prega di correre per la presidenza». Parte dal basso, Al Gore. Facile.
Si presenta così, già sudato. «Sono Al Gore, lex futuro presidente degli Stati Uniti». Viene per parlare dambiente. È lo sfondo, il pretesto, forse la scusa. Dice e non dice, come fa da un anno. E però stavolta ripete tante volte: «Non escludo di candidarmi». Ancora: «Ci sono già stato alla Casa Bianca. Ora non ci penso, ma non escludo volerci tornare».
I non escludo sono un un passo avanti. Sono il fantasma che diventa lombra che sallunga sugli avversari: si è messo alle spalle dei candidati democratici alle primarie 2008. Aspetta. Lerrore, la gaffe, i materassi. Vuole poter dire: «Io ho governato, gli altri no». Gore cè: in corsa più di quanto voglia far credere. Non arriva ancora all«Im in». Va per gradi, come fece Bill Clinton nel 1992. Al allepoca era senatore del Tennessee e saltò sulla carovana di Bill. Ora pensa che Hillary, Obama, Edwards siano partiti troppo presto. «Mancano cinquecento giorni alle elezioni presidenziali. La strada è ancora lunga». Suda sempre. Adesso di più. Ricomincia: il clima, il riscaldamento globale, lambiente, le emissioni di gas. «Vi avverto: è da un po che ho cominciato a perdere la mia obiettività quando parlo di George W. Bush. Se gli Stati Uniti non vorranno fare nulla sullambiente, qualunque accordo internazionale fallirà. Allultimo G8 ci sono state solo chiacchiere: la promessa di riparlare dellargomento. Il nulla. È stata una disgrazia mascherata da successo». Allora il manifesto ambientalista diventa politico. È il terzo uomo lui, quello che sta fuori dai palazzi, eppure quando parla della gente, della democrazia, è come se voglia rivolgersi agli inquilini dello stesso palazzo. Alla Casa Bianca: «Questa non è più lora dei politici, è lora della democrazia dal basso. Il cambiamento deve partire dalla gente».
Ecco che cosa aspetta, Gore. Che arrivi il momento di dire «me lhanno chiesto. È la gente che mi spinge a riprovarci». Arriverà quellattimo: Al gira il mondo anche per questo. Al ha pubblicato The Assault on reason anche per questo. E chissenefrega che il Washington Post labbia stroncato. Vende. È primo nella classifica dei best seller del New York Times. Ovvero, pensa lui, piace alla gente. Anche questo è venire dal basso. Degli altri, repubblicani e democratici, Gore se ne frega. Glissa, scavalca, aggira. Quando arriva la domanda sulla squadra già in corsa per la presidenza cerca di chiudere la porta: «Non credo ci sia il tempo di parlare di questo». La riapre, però. Il passo avanti si trasforma in una mezza confessione, il «non escludo» diventa qualcosa in più: «Lho detto, mancano ancora 500 giorni. Se lavorerò bene, se sarò bravo, faranno tutti i conti con i miei temi e le mie teorie».
Con lui, vuol dire. È sottinteso, è tra le righe, è sospeso. Il sudore che scende sulla guancia aumenta e allora forse la frase criptica vale davvero la voglia di candidarsi. Contro Hillary, soprattutto. Poi contro Obama, Edwards e gli altri democratici. Nei sondaggi, oggi lex vicepresidente ha il 15 per cento senza essere candidato. Significa che è già terzo, dietro la Clinton e dietro il senatore afroamericano dellIllinois.
La marcia è cominciata. Lo dice Bill Clinton che conosce Al. Allora in ogni intervista sulla campagna della moglie, lex presidente continua a ripetere a tutti di stare calmi: «Aspettate leffetto Gore. Vedrete che prima o poi si verrà allo scoperto». Clinton pensa che la macchina sia già partita. Qualcosa si vede: su internet i siti di raccolta fondi per leventuale candidatura sono già due. Il quindicinale liberal New Republic esce con un ritratto-intervista che assomiglia a una autopromozione: «What went wrong». Cioè che cosa è andato male con gli altri e quindi che cosa andrebbe meglio con lui. Poi cè il resto della campagna: due settimane fa, mister ex futuro presidente, sè preso la copertina di Time: «Lultima tentazione di Al Gore». È il racconto della rivincita: l'uomo che perse la presidenza contro George W. Bush per una sentenza della Corte suprema vuole rigiocarsi la partita. Per ribadire il concetto, è uscito anche il magazine del New York Times. Fa la sfinge: «È un cosa complicata, ma non misteriosa». Spiega, racconta, dice, poi lancia lautopromozione: «Sono convinto che oggi otterrei risultati migliori del 2000, ma per il momento non ho ancora deciso niente». È un altro modo daspettare la mossa degli altri. Quelli che lo raccontano così: «Ha raggiunto lo status di profeta. Dovunque vada, la gente lo incoraggia. Lo prega di correre per la presidenza». Parte dal basso, Al Gore. Facile.
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