Marco Travaglio, il sanculotto sempre in piedi

Credo che il nomignolo di Robespierre sia il più azzeccato per Travaglio. La invito a fare con la sua sagacia un articolo paragonando Travaglio a Robespierre.
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Manco pe’ ’a capa, caro Manghi. Sagacia o non sagacia, non me la sento di metter sullo stesso piano l’amico Marco Travaglio e Maximilien de Robespierre. I due non s’azzeccano e se proprio dobbiamo pescare nella rivoluzione francese, ecco, Travaglio potremmo dirlo un sanculotto e, nella fattispecie, un Jacques-René Hébert. Spiccicato. Specie ora che con Il Fatto Travaglio ha il suo Le père Duchesne, il foglio libellistico che gli consente di lanciare i suoi «dàgli al Berlusca!» e incensare i piemme senza mendicare spazioncelli alla Repubblica o all’Unità (gli resta, è vero, sempre Micromega, ma quello lo leggono in due, Travaglio e Floris d’Arcais. Potrebbe aggiungersi, per affinità elettive, anche Di Pietro, ma fra il manettaro di Montenero di Bisaccia e la lettura c’è forte incompatibilità per cui, nisba). Come Travaglio va in estasi al tintinnar degli schiavettoni e sempre ne vuole, sempre ne invoca, così Hébert gioiva allo stridio della lama della ghigliottina, non cessando mai di pretendere che lavorasse a tempo pieno. Tale e quale Il Fatto, Le père Duchesne era il megafono dei tribunali rivoluzionari dei quali esaltava la «purezza», l’indipendenza e la saggezza. Ma era anche sollecito nel denunciare vere o immaginarie congiure, fronde e complotti miranti a indebolire con qualche riformuccia il potere (assoluto) di Robespierre e della Convenzione. Come Travaglio, Hébert era un fior di giustizialista. Non andava per il sottile, bastava il sospetto, bastava la confidenza d’un confidente del confidente e partiva la denuncia subito raccolta da in inquisitore. Quando mancavano le prove, Hébert sopperiva con una accusa in tutto e per tutto simile a quella tanto apprezzata e difesa da Travaglio: il concorso esterno. Ti hanno visto uscire dal Café Procope, luogo d’incontro dei Girondini? Concorso esterno in associazione antirivoluzionaria: ciò che conduceva il malcapitato direttamente alle cure del boia e alla lama della Louisette, come quella banda di sanguinari familiarmente chiamava la ghigliottina.
Come sempre accade in simili circostanze, per un pezzo Robespierre e i Fouquier-Tinville si tennero buono Hébert, esattamente come la Magistratura si tiene buono Travaglio. Anche se bisogna precisare che Hébert mai trascorse una vacanza assieme a qualche membro del Tribunal révolutionnaire. Almeno allora si cercava di non sbandierare ai quattro venti il pappa e ciccia, il culo e camicia fra magistrati inquirenti e cronisti in modo da non alimentare nell’opinione pubblica, i père Duchesne, il sospetto che il giudizio dell’uno non fosse poi così indipendente da quello dall’altro. E viceversa. A lungo gli storici si sono scervellati per capire chi fosse, tra Hérbert e Robespierre, quello che definiremmo l’utile idiota (scervellamento del tutto inopportuno nel caso nostro: è fin troppo evidente che né Marco Travaglio, né uno solo dei magistrati possa definirsi, ancorché metaforicamente, un idiota. Meno che mai utile). Quel che sappiamo è che a un certo punto l’Incorruttibile si ruppe le scatole. E il 4 germinale del II anno (24 marzo 1794) Jacques-René Hébert si ritrovò a tu per tu con la Louisette. Alla quale, sebbene riluttante, offrì il collo.

Ma qui finiscono le similitudini fra Hébert e Travaglio: il solo pensare che dopo aver tanto sollecitato il loro tintinnio egli finisca in manette magari per mano di uno dei suoi tanto venerati e flabellati Fouquier-Tinville, non è cosa, caro Manghi, non è proprio cosa.

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