Il Paese era senza governo da dieci secondi, ma quel 21 febbraio di pochi mesi fa il presidente del Senato Franco Marini aveva altri pensieri. Era frastornato dalla caduta di Prodi in aula sulla politica estera, forse preoccupato per la propria carriera in caso di ritorno alle urne, senzaltro infastidito dallesultanza dei senatori del Polo. In quel momento il suo problema era più prosaico rispetto alla gravità del momento: sanzionare quei maturi parlamentari che in un momento di gioiosa eccitazione stavano lanciando in aula giornali e foglietti come coriandoli. Ed eccolo gonfiarsi dal suo scranno regale di Palazzo Madama e prorompere nel grido-tormentone amplificato in tv da Blob e in rete da YouTube: «Non va be-neee, non va be-neee». Una nemesi del destino, che ha sancito lo sbarco nella politica spettacolo di un veterano della prima Repubblica che come concessione allo show al massimo ostentava la sua penna nera ai raduni degli alpini.
Nelle videoteche virtuali non mancano filmati che documentano la ruspante gestione dei lavori dellex sindacalista Cisl, la cui ascesa a Palazzo Madama non ne ha certo snaturato il linguaggio schietto. Marini manco prova ad avventurarsi in forme auliche. E se il gioco si fa duro, durante le innumerevoli votazioni thriller sulla fiducia, Franco Marini si guarda bene dallindossare i guanti bianchi. La sequela di avvertimenti e rimbrotti non è molto varia, grosso modo questa, quasi copiata dai cartelli di divieto sui treni o dai tedeschi delle barzellette: «Fer-mii!», «Non comincia-moo!», «Non muovete-vii!», «Non muover-sii!», «Restare ai propri po-stii», «Seder-sii!», «Sedu-tii!». Senza dimenticare una pittoresca invocazione della Vergine. Un limitato glossario che la seconda carica della Stato preferisce mutuare da energici bidelli alle prese con un manipolo di recalcitranti mocciosi anziché da qualche illustre predecessore. Per ispirarsi a qualche modello di ieraticità è lunga la tradizione tra i politici avvicendatisi alla guida della Camera Alta. Dalla galleria di Palazzo Madama riemergono flash di immagini e sensazioni, recenti e lontane: le citazioni filosofiche di Marcello Pera, laristocratica «r» arrotata di Giovanni Spadolini, la pungente ironia di Francesco Cossiga, i taglienti richiami del fumantino Amintore Fanfani. Persino il desaparecido Carlo Scognamiglio Pasini, simbolo nel nuovismo esasperato della seconda Repubblica, riuscì a consegnare qualche perla di snobistico aplomb. A uno stizzito peone leghista che gli dava del maleducato perché continuava a scrivere senza prestargli attenzione, replicò con unalzata di occhi: «Non ho la presunzione di Giulio Cesare che scriveva sette lettere in contemporanea, ma riesco ancora a seguirla».
Finezze che sicuramente non tentano il pragmatico Marini che ama presentarsi come un provinciale genuino anche se è tuttaltro che un sempliciotto. Ai tavoli sindacali spesso fregava tutti dopo notti insonni e nuvole di fumo; con la gestione delle tessere di partito ha imposto tante volte la propria volontà a Dc, Ppi, Margherita e ora Pd. Negli anni 80 un altro azionista di peso dello Scudocrociato, lex ministro e pioniere Cisl Carlo Donat-Cattin si guardava bene da quel lupo marsicano dAbruzzo che indossava giacconi di montone e giacchette marroncine a quadretti. «È un killer che uccide con il silenziatore», sospirava secondo una vulgata mai smentita.
Il segreto di Marini è dissimulare, una sorta di tenente Colombo che finge di perdere il filo sul più bello per poi piazzare il colpo finale. Quando è in difficoltà in aula, porta la mano sinistra allorecchio sinistro con aria interrogativa quasi a parare gli interventi più insidiosi. Non lha fatto però nellultima votazione sulla fiducia, quando il leghista Calderoli contestava la regolarità del voto determinante di Cossiga.
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