Marino Magliani, una voce antica tra mare e vigne

Se esiste una specificità della scrittura letteraria dei liguri, è l’importanza connessa in questa scrittura al paesaggio. È come se la Liguria dettasse ai suoi scrittori parole di vento, d’erba, di terra, di ulivi, di roccia, di mare. E li spingesse a inscrivere nel paesaggio il procedere del pensiero e il rovello morale. Così succede ancora oggi per Marino Magliani, di cui arriva in libreria un romanzo intitolato Quattro giorni per non morire (Sironi, pagg. 156, euro 12,90). Magliani è uno strano tipo di scrittore: è un ligure dell’entroterra, di quelle vallate aspre e scoscese, ma è anche un viaggiatore, un poliglotta, e vive in Olanda con una moglie e un figlio olandesi, a Ijmuiden, in riva al Mare del Nord, dove ha fatto per anni il magazziniere. È un uomo ancora giovane che, abitando lontano, sente la sua terra ligure con un profondo istinto di radicamento e conservazione. Scrive solo mentre è in Olanda. Quando torna, lavora nelle sue campagne, costruisce muretti, e racconta le trame dei suoi romanzi nei bar e talvolta a me personalmente, riuscendo sempre a stupirmi per la sua naturale vena di affabulatore. Ma i suoi punti di riferimento non sono gli autori di gialli e noir che proliferano oggi in Italia con alterne fortune di bottega. Magliani ha il demone della scrittura.
I suoi maestri assoluti sono Francesco Biamonti e Giovanni Boine. Magliani, così infinitamente diverso da loro, si mette sulla loro scia e pensa nella loro lingua. Se il lettore apre questo suo nuovo romanzo (ne ha pubblicato diversi da editori liguri, e credo che ne abbia decine nel cassetto), rimane colpito dal ritrovarsi subito su una frontiera esotica, quella tra la Bolivia e il Perù: che però rimanda immediatamente a una frontiera vicina, domestica, letteraria come quella tra l’Italia e la Francia a Ventimiglia, teatro di tante pagine di un altro autore ligure, Nico Orengo, e di Biamonti stesso. C’è questo respiro sudamericano, c’è persino qualche parola di lunfardo, la lingua fascinosa dei bassifondi di Buenos Aires, ma il cuore del libro è lì pulsante tra Imperia e la Val Prino, tra gli ulivi e le fasce e il mare lontano. Il protagonista, inseguito da ricordi e con i conti ancora aperti con il suo passato, ha quattro giorni di permesso dal carcere per andare ai funerali della madre. E per salvarsi.
Da un lato Magliani scrive con sbrigliata forza di invenzione, con una accentuazione dell’azione e della trama lontana dalla tradizione che si è scelto. Ma la sua lingua, tutta innervata da una forza dialettale, terragna, concreta, lo ricolloca in una tradizione che è ligure a pienissimo titolo. Ascoltate: «Lasciate le vigne, con i suoi colpi di cesoia nel respiro del torrente, la mulattiera divideva gli uliveti.

Qua e là sotto le piante coltivate risaltava al sole un biancore di reti. Il tempo della fatica lo davano ora i colpi di un bacchio, un ritmo cadenzato cui seguiva una pioggia di olive». L’antica Liguria ha dunque ancora buone voci. E spero che non siano soltanto i liguri ad accorgersene.

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