Mario Sironi, i tormenti di un fasciocomunista

A mezzo secolo dalla morte si discute ancora del suo ruolo nel Ventennio. E si dimentica la sua opera

Mario Sironi, i tormenti di un fasciocomunista

Fascista, anzi anticonformista. Futurista, anzi metafisico. Glorioso, anzi tragico. Nazionalista, anzi europeo. A 50 anni dalla morte, Mario Sironi e la sua pittura restano questioni aperte. Recentemente, dal 14 al 17 gennaio, ha preso il via a Bergamo una mostra itinerante che, con 80 opere dal 1915 al ’61 prova nuovamente a celebrarne l’importanza storica e anche sotto il profilo di una visione del ruolo dell’artista nella società contemporanea. Sironi propugnava l’ideale di un’arte sociale, e per questo non amava le mostre, cui si dedicò quasi per necessità soltanto negli anni cupi del dopoguerra quando, ex repubblichino risparmiato dalla fucilazione per mano partigiana, si chiuse (e fu relegato) in un isolamento cosmico.
Allora i toni bituminosi dei suoi paesaggi urbani divennero ancor più bui e le volumetrie delle architetture più fantasmagoriche. «Io sono una vittima di una situazione politica che non mi riguarda che indirettamente; è la solita storia della mia vita ignorata e vilipesa dai capricci e dall’arroganza generale», scrive nel ’45. Un’autocommiserazione che sembra stridere con l’immagine dell’«artista di regime» che affrescava L’Italia tra le arti e le Scienze per l’Università di Roma e che eseguiva il fiero mosaico su La Giustizia tra la Legge e la Forza per il Palazzo di Giustizia di Milano.
Il regime appunto. Sironi ne animava l’iconografia o ne fu inconsapevole strumento? A leggere alcuni passi del suo «Manifesto della pittura murale» (’34) non sembrano esservi dubbi: «Il Fascismo è stile di vita, è la vita stessa degli italiani (...) e nello Stato Fascista l’arte viene ad avere una funzione educatrice, essa deve produrre l’etica del nostro tempo». La realtà era meno tetragona, anche se forse non al punto fino a cui si spinge Giovanni Testori quando, nel suo testo per l’antologica di Milano a Palazzo Reale nell’85, scrisse che «Sironi non era uomo da cedere alle lusinghe del Potere, una divinità menzognera, scandalosa e vile, cui egli non poteva prestare ascolto alcuno». Ma a quella «divinità» Sironi fu contiguo anche se, come sottolinea Claudio Spadoni, curatore della retrospettiva che da Bergamo è sbarcata a Bologna (in febbraio sarà a Genova e in marzo ad Arezzo, www.galleria56.it), non vanno dimenticate le accuse di cosmopolitismo e perfino di antifascismo mosse a Sironi in quegli stessi anni ricchi di imprese decorative e di arte monumentale: come se avesse rinnegato o stravolto la tradizione italiana. Così come non vanno dimenticate le critiche intrise di scherno mossegli nel ’33 da Farinacci sulle colonne di Regime Fascista a commento del monumentale affresco Le Opere e i giorni eseguito per la V Triennale.
La chiave dell’enigma sta forse proprio nel «Manifesto» pubblicato sul Popolo d’Italia firmato anche da Carrà, Campigli e Funi. «La pittura murale - scrive Sironi - è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull’immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura». E ancora: «la funzione educatrice della pittura è soprattutto una questione di stile. Più che mediante il soggetto (concezione comunista), è mediante la suggestione dell’ambiente, mediante lo stile che l’arte riuscirà a dare un’impronta nuova all’anima popolare». In queste frasi cruciali del suo «Manifesto» pare evidente l’assenza di qualsiasi traccia ideologica, tanto che all’inciso «concezione comunista», oggi qualcuno potrebbe tranquillamente aggiungere: «e anche fascista». Come sottolinea Spadoni, «è certo che l’aspirazione di Sironi a un’opera che andasse oltre la misura, non semplicemente fisica, del quadro, della pittura di cavalletto, era maturata in lui molto prima degli anni ’30». Ovvero come naturale conseguenza di un altro suo manifesto del gennaio 1920 «contro tutti i ritorni in pittura», risposta al «ritorno al mestiere» propugnato dai «restauratori» della rivista Valori Plastici.

Sironi, come precisa nel suo testo il nipote Andrea, «aspirava ad un’arte moderna pubblica che non comunicasse tra le pareti del salotto borghese a una ristrettissima cerchia di fruitori, ma alla collettività dalle pareti monumentali degli edifici pubblici».

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