Maroni: «Cittadinanza per i bimbi rom abbandonati nei campi»

L’annuncio del ministro dell’Interno: «Un minore ha diritto di avere un’identità e noi gliela daremo per motivi umanitari. Aiutare questi bambini è un dovere morale ancor prima che politico»

da Milano

Il volto borghese della Lega evita i gestacci, non urla e non si presenta in pubblico descamisado. Roberto Maroni, ministro dell’Interno, arriva tra i distinti ospiti della Camera di commercio americana stretto in una rassicurante cravatta. E nell’ovattata sala del blasonato Hotel Gallia, fa un annuncio che non potrebbe essere più politicamente corretto. Tra pochi giorni, come anticipato all’Unicef, Maroni proporrà al governo di dare la cittadinanza italiana ai bimbi rom nati in Italia senza genitori. Il fondamento giuridico non sarà lo jus sanguinis (ovvero il diritto di sangue che deriva dall’essere nati da genitori italiani) né lo jus soli (l’essere nati in territorio italiano) ma «motivi umanitari».
«È un dovere morale prima che politico proteggerli» dice il ministro dell’Interno, fornendo così l’interpretazione corretta della prima parte del suo progetto sui campi nomadi che ha scatenato tante polemiche nelle settimane scorse. Il censimento dei rom anche attraverso le impronte digitali, minorenni inclusi - fa intendere il suo discorso - non risponde a logiche da Erode ma alla volontà di offrire anche a questi bambini dignità di persone: «Stiamo facendo una cosa giusta e di equità. Garantire un nome, un cognome, un’identità ai bambini è un modo di tutelarli».
La proposta piace nel Pdl e raccoglie consensi dalla destra di Alessandra Mussolini fino alla socialista Margherita Boniver. Resta critica invece l’opposizione, che accusa il governo di «alimentare confusione» e di ricorrere a «logiche paternalistiche». I radicali non si accontentano e chiedono di più: «Perché non introdurre il principio, vigente negli Stati Uniti, secondo cui nascere in un territorio conferisce automaticamente i diritti di cittadinanza?».
Il Parlamento europeo è intervenuto il 10 luglio scorso con una risoluzione critica verso il governo italiano, nella quale si accennava a rischi di discriminazione. Il ministro dell’Interno assicura di essere stato frainteso: «Sui giornali la cosa è stata impropriamente definita “impronte digitali ai rom”, in realtà quel che stiamo facendo è un censimento dei campi nomadi. Non su base etnica, ma solo per vedere e sapere chi c’è in questi campi». L’obiettivo, spiega il ministro, è umanitario: «Dobbiamo tutelarli. Ci sono in questi campi persone che vivono in maniera subumana, bimbi il cui destino è tragico. Alcuni vengono utilizzati nel mercato dei trapianti di organi». Una tragedia resa possibile proprio dall’assenza di controlli, di Stato, di tutto: «E invece il primo diritto di qualsiasi bambino è avere un’identità».
Maroni ribalta le accuse di razzismo sui predecessori: «Fu il governo Prodi a parlare di emergenza rom e quindi a introdurre distinzioni etniche. Eppure ci è piovuta addosso la condanna dell’Europa e sono state dette contro di me e contro di noi cose terribili. Sono stato perfino definito “uno stupratore” da un direttore di giornale».
Il ministro racconta di aver escogitato una soluzione radicale per non farsi andare la colazione di traverso e cioè ha smesso di consultare la rassegna stampa. «Per non arrabbiarmi leggo solo la Gazzetta dello Sport» confessa e, indossata la maglia rossonera, entra nel campo calcistico.

«Dopo l’ultimo acquisto di Ronaldinho, sono felice di essere in questo albergo, un tempo sede del calciomercato». Fino alla conclusione, in bilico tra il Milan e la politica: «Ci sono interisti presenti? Mi dispiace, questo non è il vostro anno. È l’anno di Berlusconi, in tutti i sensi».

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