Daniela Fedi
da Parigi
«Nessun dorma, ormai la Cina più che vicina è dentro di noi: prendiamone i lati migliori e magari proviamo anche a sognare». Sembra un po' questo il messaggio lanciato dalla quinta sfilata di Antonio Marras per Kenzo andata in scena ieri a Parigi sotto una lieve cascata di petali candidi come quelli che in primavera cadono dai ciliegi in fiore. L'allestimento prevedeva infatti una gigantesca lanterna cinese che, aprendosi per il gran finale, rivelava un classico giardino orientale con la grande pianta fiorita al centro e la luna sullo sfondo. «Sono partito dai tre enigmi di Turandot, la principessa capricciosa che alla fine si ritrova alle prese con l'amore, per raccontare la storia di un incontro tra Cina e Occidente», ha detto Antonio Marras nel backstage mentre le modelle scoprivano i mille segreti della collezione.
Le gonne, per esempio, risalivano quasi sempre sulle gambe grazie a un curioso taglio a pagoda che riprendeva l'orlo per poi fissarlo con due bottoni ai lati dello spacco anteriore. Invece le maglie erano preziosamente ricamate a mano con quelle tipiche nappine frangiate che in tutto il mondo vengono chiamate «cineserie» anche se poi le ritrovi tali e quali in ogni paese del sudest asiatico. Alcune giacche erano la traduzione sartoriale di una divisa da cadetto dell'imperatore nella città celeste. Non mancavano riferimenti alla Mongolia nella maglieria e in alcuni stivali che avrebbero fatto comodo alle orde di Gengis Khan, ma alla fine nulla aveva un sapore troppo etnico nonostante Marras abbia voluto e saputo rispettare anche questa caratteristica della griffe. Sorprendente (e meraviglioso) l'uso del nero, praticamente sconosciuto da un marchio nato, cresciuto e vissuto in un caleidoscopio di colori. Invece tutti gli abiti da sera e alcuni fantastici cappotti con la tipica allacciatura cinese ad alamari erano neri e illuminati da magnifici ricami d'argento dai disegni ripresi da uno stendardo che in Cina viene appeso come portafortuna sulla testata del letto per la prima notte di nozze. «È un nero molto gioioso - ha detto lo stilista - e poi ho immaginato che l'incontro tra due mondi così lontani possa avvenire all'opera. Dove il nero e la teatralità sono di casa». Anche da Hermés, griffe magistralmente disegnata da Jean Paul Gaultier, compare a sorpresa molto nero in un'immagine a metà strada tra l'equitazione e il cosiddetto sadomasochic. La parte più bella della collezione è comunque il classico giorno sportivo e al tempo stesso metropolitano che nessuno sa fare con lo stesso, inimitabile appeal. Il poncho in pelle (probabilmente bufalo d'acqua, il materiale naturale più impermeabile del mondo) sugli eleganti pantaloni dalla linea affusolata, rimanda subito un'immagine di classe che non si può comprare un tanto al chilo, principio su cui Hermés ha costruito prima una mistica e poi un impero economico. Il fatturato ammonta infatti a un milione e 470 mila Euro di cui il 40 per cento è dato dalla pelletteria. Non a caso ai piedi della passerella c'era grande attesa per la nuova borsa chiamata «Double V» (ovvero «doppiovu» in francese) ma francamente non abbiamo capito se era quella lunga e stretta come un bassotto oppure la versione rimpicciolita della mitica «Birkin». Quanto al classico foulard Hermés detto «carrè» perché formato da un quadrato di seta 90 per 90, esiste adesso anche bordato di pelliccia: da annodare in testa come un colbacco oppure da far scivolare attorno al collo come un cappuccio. Dunque la formula di un successo secolare è lusso più creatività.
Lo pensano anche da Dior dove ieri hanno presentato la fenomenale collezione di gioielli disegnati da Victoire de Castellane con una formula davvero speciale: sei modelle di cui si vedevano solo le mani ingioiellate che davano vita ad altrettanti tableaux vivants. Una faceva un puzzle, l'altra la manicure, la terza lavorava a maglia, la quarta cercava un numero di telefono e tamburellava con le dita vicino all'apparecchio, la quinta scriveva una lettera e l'ultima si provava i gioielli dallo scrigno di Victoire.
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