da New York
In una bella sera di questo estroso giugno Martial Solal, pianista francese fra i migliori d'ogni tempo della musica afroamericana e non solo, 81 anni, suona nel giardino del Museo d'Arte Moderna di New York con il fedele contrabbassista François Moutin.
Maestro, lei ha licenziato di recente tre cd uno più bello dell'altro. Ora sè esibito in un luogo mitico in cui è ammessa solo la musica immortale. Sta celebrando i suoi ottant'anni?
«Ma no, io detesto queste ricorrenze. E poi, che cosa vuol dire rallegrarsi di avere ottant'anni? Ne avessi venti o trenta, con tutti i miei capelli neri che non ci sono più, potrei anche stare al gioco. Ma adesso».
Lei suona poco negli Stati Uniti, perché?
«Nella musica mi sento cittadino del mondo. Dei miei viaggi negli States conservo la memoria di due fondamentali. Ricordo il primo del 1963, quando ho suonato al festival di Newport e ho inciso un album con Teddy Kotick contrabbasso e Paul Motian batteria, due collaboratori di Bill Evans, mi permetta questo attimo di orgoglio. Sono rimasto a New York quasi tre mesi, ho lavorato nei club e ho incontrato perfino Ellington. La seconda volta, alla quale ripenso con qualche brivido, riguarda la mia scrittura al Village Vanguard di New York nel 2001. Ero in trio con François Moutin e con Bill Stewart. Il disastro delle Twin Towers era accaduto dieci giorni prima, cera un clima che si tagliava con l'accetta ma anche un forte desiderio di tornare a vivere. A questo credo di aver dato un minimo contributo».
Lei è nato ad Algeri e ha trascorso lì la prima giovinezza. Come ha fatto, nell'estrema periferia dell'impero, a diventare il più illustre virtuoso del pianoforte dopo Art Tatum?
«In casa avevamo un pianoforte che ho iniziato a strimpellare a cinque anni. Due anni dopo ho cominciato a studiare seriamente.
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