
Goliarda Sapienza era una donna che spiava il sonno della città, una che diceva «scrivo per stronarmi». Era una ladra: finita nel carcere di Rebibbia per aver rubato dei gioielli a un'amica. Nell'istituto penitenziario conosce alcune donne con cui stringe una solida amicizia. Goliarda è una strana, «come se c'avessi 'na fissa», le aveva detto una di queste. Mario Martone porta al cinema una delle più importanti scrittrici del Novecento (famosa per il romanzo L'arte della gioia, pubblicato postumo) con il suo ultimo film Fuori presentato a Cannes e lo fa con grande maestria. La sceneggiatura non eccede mai, anzi è libera da ogni sproporzione, i dialoghi sono pungenti, ma mai privi di sfumature, ci sono delle parole non dette che restano nella mente più forti proprio perché taciute. Siamo nel 1980. Valeria Golino interpreta Goliarda Sapienza, Matilda De Angelis invece è Roberta, l'amica più giovane - potrebbe essere sua figlia - con cui condivide l'esperienza in carcere, una congiunzione di anime riuscita in modo eccellente: dove l'esuberanza di una deborda, la placidità dell'altra bilancia; dove la spregiudicatezza di Roberta inonda la scena, si fa avanti la pazienza e la dolcezza di Goliarda. Una coppia che conquista. Sono un trionfo insieme: lo sono quando si ubriacano di whiskey on the rocks, quando rubano una macchina, quando fumano o ridono o si osservano sulle note di Robert Wyatt (nel film tornano più volte i brani Memories e The British Road), quando Goliarda tira uno schiaffo a Roberta dopo essersi finta sua madre davanti a un cameriere imbarazzato, quando si baciano. «È sempre negli amori per le donne che mi perdo. Con gli uomini è più semplice», confessa la scrittrice.
Il lavoro che Martone fa insieme con Ippolita Di Majo (connubio inossidabile) è qualcosa che raramente si è visto nel cinema italiano degli ultimi anni, il risultato è un film che fa vibrare le corde più profonde nella bocca dello stomaco, prima di tutto un lavoro sincero di scrittura. Quello che traspare dagli occhi onesti della Golino - in quella che è una delle sue interpretazioni più complesse - è una profonda tenerezza. L'attrice pare aver fatto un lavoro sulla sua indole, sulla natura del suo animo, da risultare completamente vera in una parte che la costringe a un temperamento morigerato, quasi sottomesso a quello della De Angelis che la prende per mano, la tira, la guida, la conduce, e così facendo intanto la affascina, la influenza e la seduce.
Oltre all'attenzione nella scrittura, al cast perfettamente assemblato, all'operazione minuziosa sulla scenografia di Carmine Guarino (alcuni dei suoi successi sono il risultato di una nota collaborazione con Paolo Sorrentino), c'è anche un elegante lavoro sulla fotografia di Paolo Carnera (Suburra, Io capitano) che gioca con i toni caldi dell'arancione, del giallo, che flirta con la luce di una Roma baciata da un sole vitale, a tratti primaverile.
Nel cast c'è anche la cantante Elodie nel ruolo di Barbara, insieme a Roberta sono le persone più vicine a Goliarda, in merito alle quali dice: «Loro stanno dentro anche quando sono fuori dal carcere. Quando sto con loro mi sento dentro anche io: libera». Qui c'è il nocciolo di questa storia. Quando siamo davvero liberi? Quando stiamo dentro a quello che siamo e non a quello che dovremmo essere; quando non indossiamo i panni che gli altri ci chiedono di indossare; quando rispondiamo solo alla nostra pura essenza.
A proposito di questo, è importante dedicare un momento di riflessione alla locandina del film: Roberta, con le mani, copre gli occhi di Goliarda da dietro le sue spalle. Sotto alle palpebre oscurate dai palmi dell'amica, campeggia maiuscolo il titolo FUORI, come se il suo sguardo per uscire fuori dal buio fosse costretto a guardarsi dentro. Per capire cosa c'è là fuori è necessario passare dentro alla parte più buia di sé? «Il carcere è come fuori», dice la scrittrice (quella vera, in un frammento di repertorio durante i titoli di coda), forse intende dire che non c'è differenza tra quello che c'è dentro di noi e quello che c'è fuori da noi.
Se non ci sentiamo liberi dentro, non lo saremo neppure fuori: né dietro le sbarre di un carcere, né coricati sul letto della nostra casa o in qualsiasi altro posto del mondo. Magari, per far fronte alla società che a volte appare una «piccola galera giudicante», non ci resta che salvarci con l'immaginazione, con le parole, con la letteratura, con l'arte.