Se non fosse una tragedia, anzi due tragedie, verrebbe da fare una battuta e dire che Ferdinando Carretta ha dato una lezione a Pietro Maso.
Quest’ultimo infatti uccise i genitori nel 1991 allo scopo di ereditare; benché dichiarato totalmente capace di intendere e volere dal perito, si è visto riconoscere la seminfermità mentale dai giudici, e condannare a trent’anni anziché all’ergastolo come la premeditazione avrebbe richiesto. Ma siccome in Italia anche una semi-condanna è pur sempre troppo, e quindi va più o meno dimezzata di default, dopo diciassette anni l’imputato (oggi trentasettenne, e quindi ancora in eccellente salute) è tornato libero.
Tuttavia chi pensava che Maso se la fosse cavata a buon mercato ha dovuto ricredersi ieri mattina quando ha appreso che a un altro parricida e matricida (e pure fratricida, per giunta), Ferdinando Carretta appunto, è andata ancora meglio. Carretta, che ha 46 anni, di galera non ha fatto neppure un giorno. Dopo il triplice delitto - agosto 1989 - sparì nel nulla. Ricomparve dieci anni più tardi a Londra, e non perché in preda a un rimorso di coscienza avesse deciso di costituirsi, ma perché fu casualmente riconosciuto e fermato.
La giustizia italiana lo considerò totalmente incapace di intendere e volere, e quindi lo mandò assolto, ordinando solo un ricovero in un ospedale psichiatrico, nel quale Carretta è rimasto sette anni. Ci sarebbe da disquisire su come un uomo totalmente incapace di intendere e volere abbia potuto vivere e lavorare, da solo, in Inghilterra per dieci anni: ma la discussione apparirebbe perfino oziosa se confrontata con un’altra. E cioè: come sia possibile che lo Stato italiano assegni in eredità a un pluriomicida tutti i beni delle sue vittime. Eppure questo è successo: Ferdinando Carretta, dopo aver ucciso i genitori e il fratello, dopo essere scappato, dopo essere stato dichiarato non punibile, dopo essersi liberato perfino del ricovero coatto, eredita. Casa e contanti di famiglia sono suoi. Carretta è riuscito dove Maso ha fallito.
La singolare coincidenza - assegnazione dell’eredità a Carretta lo stesso giorno della scarcerazione di Maso - non è forse casuale, o almeno speriamo che non lo sia. Speriamo che sia il segno di una giustizia divina che, dovendo aspettare il giorno del Giudizio per regolare i conti, perlomeno manda all’umanità un segnale per metterla di fronte alle proprie assurdità e responsabilità.
Intendiamoci. Noi non siamo forcaioli e anzi ci rallegriamo per ogni storia di pentimento, di redenzione, di riscatto. Due millenni di cristianesimo sono costellati di miracoli del cuore che hanno portato assassini e peccatori fra i peggiori - da Saulo di Tarso a Agostino d’Ippona - ad essere tra i santi più grandi. Può dunque darsi che anche Maso e Carretta siano pentiti, chissà: non possiamo entrar nelle coscienze. Maso dice di aver scoperto proprio la fede cristiana, e di esserne stato radicalmente trasformato; Carretta parla di «un rimorso ancora grande».
Sarà anche tutto vero, ma non è per un pregiudizio che non riusciamo a commuoverci: è che qui non c’è un fra Cristoforo che si ritira in convento, né un Innominato che libera Lucia, va, vende tutti i suoi averi e si fa povero tra i poveri. Qui c’è un Maso che va a lavorare in un’officina, e c’è un Carretta che nonostante il «rimorso ancora grande» fino a ieri era in causa con le zie per l’eredità, e la causa è finita con un accordo in cui tutti i beni delle vittime passano al carnefice.
Ora Maso e Carretta vogliono farsi una famiglia nuova, tutta loro, moglie e figli. È probabile che vi riescano: il mondo d’oggi crea strane star, e i protagonisti della cronaca nera ricevono più proposte di fidanzamento e matrimonio di quante ne riceva un banale laureato. La giustizia, d’altra parte, li ha resi liberi e nel caso di Carretta perfino benestante. Carte alla mano, hanno tutto il diritto a quell’oblio e a quella «vita normale» che chiedono. Però la società ha un altro diritto, quello di domandarsi dove siano finiti concetti come punizione, riparazione, espiazione. Parole che il mondo di oggi ha spazzato via e in parte anche ridicolizzato.
Una volta la cronaca nera usava vocaboli truci, per gente come Maso e Carretta. Li chiamava «belve», come chiamò Rina Fort, che in via San Gregorio a Milano nel 1946 uccise la moglie e i tre bambini del suo amante. Poi però li dimenticava e li faceva dimenticare al mondo.
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