Massa presidente del «Fantozzi club»

Massa presidente. Eletto per acclamazione, con parecchie lussazioni alle mani, dalla scombiccherata assemblea dei fantozzi della vita. Una partenza da fuoriclasse, una gara da Schumacher, una domenica che sembra finalmente collocarlo nel rotary dello sport, dove diveggiano solo gli immensi. È la volta giusta per gettarsi alle spalle la fama di perdente e di impiastro, insomma di uomo - come ce ne sono tanti per le strade del mondo - cui manca sempre un centesimo per fare un soldo. Per non essere più Massa e per essere un altro Schumacher. Ma evidentemente sta scritto: subito, prima ancora di nascere, sul libro mastro delle congiunzioni astrali: chi nasce Massa resta Massa. Sempre. E difatti. Tre giri al termine, motore arrosto. In fumo la riscossa Ferrari, in fumo la bella velleità di diventare qualcosa o qualcun altro. Massa presidente. Per acclamazione. E qualcuno chiami l’elettricista perché è saltata la luce.
Come nebbia di novembre, dalla gara ungherese cala sulla memoria la tragicomica pena di tante giornate indimenticabili. L’assemblea dei fantozzi della vita può sfogliare annali copiosi, come un’interminabile Spoon River dell’illusione infranta. Bitossi, chi può dimenticare Bitossi? Un ciclista, una pallina da spiaggia, una grande metafora dell’esistenza. Buon corridore, nel 1972 si trova a un metro e a un attimo dalla maglia iridata, nel Mondiale di Gap. Se il rettilineo non fosse in leggera salita, se non avesse un rapporto troppo duro, se non fosse così stanco, se il suo cuore non fosse matto: se, se, se... Mentre tutti questi «se» lo inchiodano al suo destino, il compagno Marino Basso lo supera proprio sul traguardo, iscrivendolo per sempre al grande club di cui sopra.
E Pacione? Dice qualcosa, la parola Pacione? Attaccante di grandi promesse. Viene dall’Atalanta. Nell’annata 85-86, Trapattoni lo lancia nella Juve, sperando di consegnarlo alle classifiche cannonieri e alla nazionale. Una sera di Coppacampioni, l’occasione per l’ultimo salto: se fa gol, elimina il Barcellona, qualifica la Juve e si assicura un domani da padreterno. C’è sempre un se. Non fa gol. La butta fuori nel modo più impronunciabile. Resterà Pacione.
Diamine quanti sono. Basta cominciare e non si finisce mai. Sfilano ad uno ad uno, con il capo chino, rimpiangendo l’occasione della vita buttata nel vicì. Osvald Toetsch, sciatore altoatesino: ai Mondiali di Bormio dell’85 ha un tempone nello slalom, è a medaglia, mancano poche porte. Improvvisamente, gli cala sugli occhi la fascia pubblicitaria e da quel momento è buio totale: nessuna medaglia, nessun futuro. Entra nella storia come quello della fascia. Si fosse messo la berretta, quella mattina.
E poi Wang, il cinese Wang, il tenerissimo Wang. Ai Giochi di Atlanta domina nel tiro a segno. Stravince fino all’ultimo colpo. Al momento di spararlo, una crisi glicemica, o qualcosa del genere, gli annebbia la vista. Spara a salve, spara a vuoto. E l’oro se lo prende il nostro Di Donna.
E poi lui, come dimenticare: Hector Cuper. Allena il Maiorca e perde la finale di Coppa delle Coppe. Allena il Valencia e perde due finali di Coppacampioni. Lo chiamano all’Inter convinti che qui sarà un vincente. Inutile rivangare: basta dire 5 maggio 2002. Ultima giornata, sconfitta all’Olimpico con la Lazio: lo scudetto va alla Juve. E Cuper resta Cuper. Quello che non sarà mai Mourinho.
Diciamolo: si rischia di fare un elenco del telefono. Meglio chiudere e piuttosto chiedersi: che cosa dire, a tutti quanti i Massa di questo sortilegio ancestrale? Quali parole trovare? Come sempre: il bicchiere mezzo pieno. È storia: sui beffardi sadismi del destino si può investire. Si può vivere di rendita, lucrando compassione, affetto, simpatia. Dorando Pietri non se lo filerebbe nessuno, cent’anni dopo, se a Londra avesse tagliato baldanzoso e saltellante il traguardo olimpico. Bitossi non sarebbe Bitossi, senza Gap: sarebbe soltanto uno dei tanti ciclisti medi di cui oggi non viene neppure il nome. Pacione non sarebbe Pacione. E Cuper, chi parlerebbe di Cuper senza il 5 maggio?
Massa, lo stesso.

Avesse vinto, del suo Gp d’Ungheria tra vent’anni nessuno ricorderebbe più nulla. Questo, certamente, nessuno lo dimenticherà più. Si consoli, Felipe: forse una sconfitta memorabile può valere più di una vittoria banale. Forse. Però è meglio se va avanti qualcun altro a spiegarglielo.

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