Massacrò i genitori per l’eredità Maso torna libero dopo 17 anni

da Milano

Diciassette anni, quattro mesi e venticinque giorni. Il conto di Pietro Maso con la giustizia si ferma qui. Per il protagonista di uno dei più sconvolgenti delitti familiari della storia moderna d’Italia, la magistratura ha deciso che il carcere sia stato abbastanza. Il tribunale di Sorveglianza di Milano - contro il parere della Procura generale - ha depositato ieri il decreto che concede a Maso il beneficio della semilibertà. Uscirà ogni mattina dal carcere di Opera e vi tornerà la sera. Lavorerà come magazziniere in una ditta, passerà i fine settimana e le feste comandate con la sua compagna, la giovane donna che da qualche tempo ha scelto di stargli accanto.
Era poco più che un ragazzo la sera del 20 aprile 1991, quando confessò ai carabinieri di Montecchia di Crosara, vicino Verona, di essere stato lui, aiutato da tre amici, a massacrare i genitori tre giorni prima, andandosene poi tranquillamente a ballare in discoteca. Lo condannarono a trent’anni, e sembrò non fare una piega. L’uomo di trentasei anni che oggi porta il nome di Pietro Maso, hanno stabilito i giudici, non ha più nulla a che fare con quel ragazzo. Ne porta il nome e i rimorsi, ma è in grado di camminare nella società, portando a compimento il percorso di rieducazione avviato in carcere.
Non è stata una decisione facile, quella dei giudici milanesi. Dalla loro parte, a sostegno della richiesta di semilibertà, i legali di Maso hanno portato il tempo trascorso, la profonda conversione del detenuto, il comportamento corretto durante i permessi premio che da un paio d’anni gli hanno permesso di uscire periodicamente dal carcere. Ma la Procura si è battuta con forza, ricordando, insieme alla brutalità del crimine, la totale spensieratezza con cui venne compiuto.
Antonio Maso e Maria Rosa Tessari vennero massacrati a colpi di bastone e di cric da un figlio che li considerava ottusi e soprattutto avari, e che pochi giorni prima aveva falsificato un assegno di 25 milioni di lire del conto paterno per finanziare «il suo tenore di vita», le piccole dispendiose abitudini di vitaiolo di paese. E già nell’opporsi alla concessione dei permessi premio, negli ultimi anni, la Procura aveva ricordato come il percorso carcerario di Maso non sia privo di macchie: prima tra tutte, l’inquietante scambio di lettere con un altro detenuto dal cupo passato, l’ex terrorista nero Gilberto Cavallini.
«Non pensavo si arrivasse a questo traguardo» dice Maria Pia Licata, uno dei suoi avvocati. Invece Roberta Cossia - il magistrato che ha da anni sul suo tavolo il fascicolo intestato al detenuto Maso, e che ha fatto da relatore all’udienza decisiva di giovedì scorso - non ha avuto dubbi. Maso fuori, dunque, perché così prevede la «legge Gozzini», la riforma carceraria. E a costo di sfidare i rischi possibili: non solo quello estremo di una «ricaduta» di Maso, ma anche quelli più concreti e immediati delle reazioni pubbliche.
E infatti le polemiche arrivano subito: le più significative sono quelle dei sindaci di Montecchia e di Verona, i luoghi che hanno vissuto direttamente l’orrore del massacro.

«Doveva scontare la condanna fino in fondo - dice il primo, Giuseppe Cavazza - credo che da queste parti ci sarà gente che non è tanto d’accordo con questa decisione». E il sindaco di Verona, Flavio Tosi (che pur ammette che «probabilmente Maso è veramente pentito») dice secco: «È la dimostrazione di quanto morbido, per non dire lassista, sia il sistema della giustizia in Italia».

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