MilanoCerto, anche di fronte a una condanna a quindici anni di carcere si può non sentirsi appagati, e infatti dopo la sentenza la sorella di Abba dice «non credo più nella giustizia» e i suoi fratelli dicono che «noi volevamo lergastolo». Ma la sentenza che il giudice Nicola Clivio emette alle 16 di ieri chiude la tragedia che il 14 settembre scorso costò la vita a Abdoul Salam Guibre detto Abba senza ombra di indulgenze. La caccia alluomo scatenata da Fausto e Daniele Cristofoli, padre e figlio, baristi e gestori di chiosco, per punire i tre ragazzi che gli avevano fregato dal bancone un pacchetto di dolciumi, viene punita in modo severo. Fu un omicidio volontario, dice la sentenza, aggravato dalla futilità dei motivi. Quindici anni e quattro mesi la condanna per entrambi gli imputati, appena sotto i sedici anni chiesti dalla Procura.
Non cè nella condanna - e daltronde non cera nemmeno nella requisitoria del pm Roberta Brera - laggravante del movente razziale: che è stato fin dallinizio, fin dalle prime ore dopo il delitto, il grande interrogativo della vicenda. Quanto contò il colore della pelle di Abba nello scatenare la violenza dei due commercianti? Sarebbe accaduta la stessa tragedia se a rubare le merendine fossero stati dei bianchi? Che Fausto Cristofoli, mentre inseguiva, avesse insultato Abba gridandogli «sporco negro» è assodato, e molti a Milano - soprattutto nelluniverso giovanile - hanno vissuto questa storia come una storia a sfondo razziale. E anche ieri il difensore dei familiari di Abba, Mirko Mazzali, insiste: «È stato un delitto razzista». Ma per la magistratura non è così. Laggressione contro i tre ragazzi fu un delitto agghiacciante e ingiustificabile, in cui fin dallinizio i Cristofoli avevano messo in conto che la morte della preda potesse essere la conclusione della caccia. Ma il razzismo, dice la sentenza, non centra.
Loro, i due imputati, hanno cercato senza successo di limitare in qualche modo i danni. «È stato un omicidio preterintenzionale, non cera volontà di uccidere» hanno detto i difensori. Loro, padre e figlio, assistono alludienza in un angolo dellaula, seduti uno accanto allaltro. Ludienza è a porte chiuse, ma nella stanza cè una piccola folla di parenti di Abba, presenti come parti civili (alla fine otterranno un risarcimento di trecentomila euro, che difficilmente i Cristofoli riusciranno mai a pagare); in corridoio ci sono gli amici del ragazzo ucciso, e ogni volta che la porta si socchiude lanciano agli imputati sguardi carichi di odio.
Padre e figlio sono pallidi, somiglianti, apparentemente rassegnati. Daniele, il figlio, è stato l'esecutore materiale, è stato lui a colpire ripetutamente Abba, ormai a terra, con la spranga che si usa per alzare la saracinesca del bar, sfondandogli la tempia. Ma linchiesta ha raccontato che ad incitarlo alla caccia alluomo, era il padre, che daltronde ha alle spalle una carriera non breve di delitti. Magro, la barba grigia, Fausto Cristofoli ascolta in silenzio lavvocato del padre di Abba spiegare al giudice che «non vogliamo una sentenza esemplare, vogliamo una sentenza che dica che questa città non è un Far West dove è lecito farsi giustizia da sé».
Ancora ieri pomeriggio, come in tutta questa storia che non doveva succedere, risalta in modo impressionante la figura di Assane Guiebre, il padre di Abba. È qui da trentanni, si sente italiano, ha sempre lavorato duramente.
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